’ADAM: uomo, Adamo

Ecco una parola ebraica che tutti conoscono e che l’Antico Testamento presenta 554 volte (curiosamente il profeta Ezechiele con la formula «figlio dell’uomo» assorbe ben 132 usi del vocabolo). Stando sempre alla statistica, nei primi 11 capitoli della Genesi, ’adam ricorre 46 volte. Infatti è là che appare per la prima volta il termine ed è, sì, il nome proprio del primo uomo, Adamo, ma a sorpresa ha l’articolo ebraico ha-, quindi il senso è universale, «l’uomo». È quell’umanità che tutti ci accomuna, il nostro padre, noi e i nostri figli: è quella qualità che impedisce l’assurdo del razzismo perché alla sorgente c’è l’essere umano, appartenente all’unica razza umana.
Il significato di base di ’adam è il colore «rossiccio» dell’argilla della terra da cui l’uomo è tratto: «Il Signore Dio plasmò ha-’adam con la polvere dell’’adamah (terra)» (Genesi 2,7). È evidente in questa frase il collegamento tra la realtà materiale di Adamo, «il terroso», con la «terra», espresso attraverso la stessa base linguistica ’adam/’adamah che, tra l’altro, si connette allusivamente anche a dam, «sangue», a causa del colore rosso.
A questo punto dovremmo aprire un discorso immenso sulla persona umana, quello che tecnicamente è definito come «antropologia», studio dell’uomo (ánthropos in greco). Noi ricorderemo solo pochi elementi sulla base dei primi capitoli della Genesi. Innanzitutto il tema della libertà: l’uomo è posto sotto l’albero simbolico della «conoscenza del bene e del male», ossia delle libere decisioni morali. Egli può ricevere dal suo Creatore il frutto di quell’albero, cioè il dato oggettivo del bene e del male; oppure, come purtroppo farà, lo afferrerà e ruberà, decidendo lui soggettivamente l’etica, ciò che è vero, giusto, buono o falso, ingiusto e cattivo. È il cosiddetto «peccato originale», il voler essere «come Dio conoscitori del bene e del male» (3,5).
Un altro elemento importante dell’umanità è la sua triplice relazione. Infatti, noi siamo rivolti verso l’alto, cioè a Dio da cui riceviamo la vita, e verso il basso, cioè alla terra da «coltivare e custodire» (2,15) e agli animali a cui dare il nome che li definisca (2,19-20). Ma la perfezione è raggiunta con uno sguardo orizzontale che è la terza relazione, quella con l’«aiuto che gli corrisponda» (letteralmente, in ebraico, «che gli stia di fronte», faccia a faccia, gli occhi negli occhi). È il rapporto con la donna, cioè col prossimo e l’umanità.
L’autore sacro ricorre al simbolo della «costola» che, nell’originale ebraico, indica il «lato»: lo stare a fianco significa parità e comunanza di carne e di spirito (2,21-23). È per questo che si ha un gioco di parole intraducibile in italiano: «La si chiamerà ’isshah perché da ’ish è stata tratta» (2,23). Come è facile intuire, si tratta di un unico nome, l’uno al maschile, ’ish, «uomo», e l’altro al femminile, ’isshah, «donna», per indicare la realtà comune che li unisce.
Ed è proprio questa relazione di comunione e d’amore, capace di generare, che diventa l’«immagine» del Creatore: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (1,27). La statua più simile a Dio non è un simulacro di pietra, ma è l’umanità vivente nella sua dualità feconda sia biologicamente sia spiritualmente attraverso l’amore.

 

 

 


11.11.2021



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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