Un’equivalenza strana: sette a mille
E' l’alba ma il sole batte già implacabile sulla vetta rocciosa del Sinai. Oggi il suo nome in arabo è Gebel Mousa, il Monte di Mosè. Molti anni fa salii anch’io durante le ore notturne verso quella cima, proprio per evitare il calore incandescente e così poter riscendere alle prime luci del giorno, dopo aver contemplato la distesa pietrosa del deserto e il sottostante monastero di Santa Caterina con la sua oasi quasi miracolosa. Mosè, secondo il racconto dell’Esodo (34,1-9), è lassù con le nuove tavole del Decalogo, dopo che ha infranto le prime scagliandole contro il vitello d’oro idolatrico.
Dio si ripresenta davanti a lui, avvolto in una nube, e le sue parole sono simili a una sorprendente “carta d’identità” personale, basata su un’equivalenza numerica: «Terza e quarta generazione» e «millesima generazione». Si delinea per questa via simbolica un tema fondamentale del Giubileo, il perdono. Ecco la potente dichiarazione divina: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni perdonando la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, castigando le colpe dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e quarta generazione» (34,6-7).
Sotto la simbologia numerica entra in azione la giustizia divina nella sua pienezza rigorosa affidata a “sette” (3 e 4). Essa, però, è travalicata dal perdono e dalla misericordia che si estendono ben oltre, all’infinito, raffigurato nel numero “mille”. Certo, un po’ ostico per noi è il linguaggio semitico generazionale: con esso si vuole indicare che il peccato non è mai solo una questione individuale ma sociale. La giustizia divina è, quindi, severa perché il Signore è un Dio morale. Superiore, però, è la sua misericordia che non ha limiti nel perdonare tutto e tutti. Significativa è un’altra affermazione divina: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio e non piuttosto che si converta e viva?... Io non godo della morte di chi muore. Convertitevi e vivrete!» (Ezechiele 18,23.32).
Nella linea di questa equivalenza numerica, proponiamo quella prospettata a Pietro da Gesù: 7 a 70 x 7. L’apostolo l’aveva interpellato così: «Signore, quante volte dovrò perdonare il mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?». Cristo gli risponde formulando un intreccio numerico simile a quello del Dio del Sinai: «Non ti dico fino a sette ma fino a settanta volte sette!» (Matteo 18,21-22). Forse Gesù allude a un macabro personaggio discendente di Caino, Lamek, che aveva proclamato la terribile e implacabile logica della guerra di cui siamo tutti testimoni ancora oggi: «Io uccido un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte è vendicato Caino; settantasette volte sarà vendicato Lamek» (Genesi 4,23-24).
Gesù ribadisce la meta suprema della misericordia e del perdono, incarnata dall’agire stesso di Dio, pronto a «conservare il suo amore per mille generazioni». Egli supera anche le frontiere dell’amico - nemico quando nel Discorso della Montagna lancia questo appello: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,45).
04.09.2025
Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana