«Io, Paolo, ti supplico per questo mio figlio»
Offri la libertà all’uomo debole, ed egli stesso si legherà e te la riporterà». Questa frase, tratta dal racconto L’affittacamere del grande Dostoevskij, fa pensare a certi giochi che i loro padroni fanno coi cani nei parchi pubblici: lanciano un ramo, e il cane corre ad afferrarlo per riportarlo soddisfatto. Purtroppo c’è una verità in questa immagine: a parole tutti aspirano alla libertà, ne proclamano la necessità ma, sotto sotto, molti amano le loro catene, non necessariamente politiche, perché i condizionamenti della comunicazione di massa sono altrettanto forti e attrattivi.
La scorsa settimana abbiamo già ricordato che il Giubileo biblico – secondo il c. 25 del Levitico – esigeva ogni mezzo secolo la liberazione degli schiavi. Ritorniamo ora sul tema in maniera particolare attraverso un biglietto, fatto di sole 328 parole greche, che san Paolo indirizza all’amico Filemone, riguardante un suo schiavo, un tale Onesimo che era fuggito e che era ricorso alla mediazione dell’apostolo per essere benevolmente riammesso nell’organico familiare. Secondo il diritto romano, il padrone aveva il potere assoluto su uno schiavo, fino alla sua eliminazione in caso di un delitto come la ribellione.
«Io, Paolo, anziano, ma ora anche prigioniero di Cristo Gesù… ti supplico per questo mio figlio Onesimo, che ho generato nelle catene» (vv. 9-10). Si allude, dunque, sia a un battesimo amministrato dall’apostolo allo schiavo, sia forse agli arresti domiciliari che Paolo sta subendo a Roma, in attesa dell’esito del suo ricorso in appello alla cassazione imperiale (Atti 28,30). La supplica è calorosa e rivela lo spirito cristiano: Filemone deve riaccogliere Onesimo «non più come schiavo ma da fratello amato, soprattutto per me, ma quanto più per te nella carne [come uomo] e nel Signore [come cristiano]» (vv. 16-17).
Conosciamo la famosa dichiarazione paolina: «Non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo » (Galati 3,28). Nella Prima Lettera ai Corinzi (7,21-24) l’apostolo non aveva dato peso allo statuto sociale di schiavo perché non contrastava con l’essere cristiani, a differenza del giudaismo che, con le sue osservanze rituali obbligatorie (ad esempio, il riposo sabbatico), dichiarava impossibile la coesistenza della duplice situazione di schiavo ed ebreo.
Nella Lettera a Filemone si intuisce, però, anche l’ulteriore prospettiva cristiana che esige il superamento della schiavitù a causa della comune fraternità in Cristo come figlio dell’unico Dio (Galati 4,6-7). Un impegno da ribadire in questo Giubileo contro l’infame varietà delle schiavitù nello sfruttamento lavorativo dei migranti e dei bambini, nella tratta delle prostitute, nelle tossicodipendenze, nelle oppressioni sociali. Già un pensatore pagano come Seneca, contemporaneo di Paolo, scriveva: «Sono schiavi. Sì, ma esseri umani. Sono schiavi. Sì, ma compagni sotto uno stesso tetto. Sono schiavi. Sì, ma anche umili amici».
21.08.2025
Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana