Soltanto pochi preferiscono la libertà. I più non cercano che buoni padroni». È lo storico romano Sallustio nel I sec. a.C. a sfoderare questo pessimismo che purtroppo ha una sua verità, come è confermato dall’adesione delle masse a certe dittature, compresa da noi quella del passato fascista. La libertà autentica, infatti, è un esercizio impegnativo che comprende critica, coraggio, partecipazione, rigore, onestà, e la capacità di superare l’interesse privato, il quieto vivere egoistico, la coda di paglia. Sappiamo anche quanto la società contemporanea sia riuscita a indorare e a rendere lievi i vincoli esteriori, attraverso i condizionamenti della comunicazione informatica e il relativo consumismo e il consenso indotto persino nell’adesione alle falsità.
 Esiste, però, ancora oggi la servitù vera e propria in non pochi Stati; ma anche nelle stesse società libere si dispiega un ventaglio di nuove forme di schiavitù: le tossicodipendenze o il nichilismo, la tratta delle prostitute, lo sfruttamento degli emigrati a livello lavorativo o quello anche sessuale dei minori, la pedopornografia, l’usura e tante altre feroci forme di soggezione. Ci sono, poi, nazioni intere soggette alle superpotenze perché coi loro debiti pubblici e la corruzione della loro classe politica non sono in grado di essere arbitre del proprio destino.
 Ora, nella pagina biblica fondamentale del Giubileo, il c. 25 del Levitico, uno degli impegni di quell’anno santo era esplicito: «Se il tuo fratello cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare come schiavo, sia presso di te come un bracciante, come un ospite. Ti servirà fino all’anno del Giubileo, allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà alla sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri» (vv. 39-41). E il testo continua facendo menzione della schiavitù egiziana da cui il Signore aveva liberato Israele attraverso l’esodo.Il Giubileo è, quindi, un evento di libertà, nel quale si torna ad essere persone che si scrollano di dosso la cappa di piombo della servitù e delle discriminazioni. Si tratta di una scossa sociale, di una proposta di libertà che spesso, però, rimaneva sulla carta o nei sermoni ufficiali, tant’è vero che il profeta Geremia spiega con forza che il crollo di Gerusalemme e la deportazione degli ebrei a Babilonia nel 586 a.C. fu una sorta di giudizio di Dio: gli israeliti, infatti, non avevano rispettato il Giubileo liberando gli schiavi e il Signore aveva ridotto loro in schiavitù (34,14-17).
 Il messaggio cristiano è ancora più netto, anche perché «Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio» (Galati 4,6-7), e lo stesso san Paolo nella medesima lettera concluderà: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (3,28). Nella prossima puntata ritorneremo su questo tema attraverso un breve scritto dell’apostolo che affronta un caso concreto riguardante proprio uno schiavo di nome Onesimo, fuggito dalla casa del suo signore, il cristiano Filemone. Lasciamo, però, in finale la parola a Gesù: «Non vi chiamo servi perché il servo ignora ciò che fa il suo padre, ma vi ho chiamati amici» (Giovanni 15,15).
 																			
										14.08.2025
										
																		
						
																		
									Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana