Fede e ragione

«La fede è la più alta passione di ogni uomo. Ci sono forse molti uomini che arrivano fino ad essa, ma nessuno va oltre». Così nella sua opera Timore e tremore (1843) il filosofo danese Søren Kierkegaard celebrava la grandezza della prima delle «virtù teologali», la fede. Abbiamo iniziato nella puntata precedente del nostro itinerario all’interno delle virtù a illustrare qualche lineamento di questa qualità profonda della persona. Essa è dono divino ma anche impegno umano: grazia-fede.

Ora ne proporremo un altro, fede e ragione, che ha dato il titolo all’enciclica di san Giovanni Paolo II Fides et ratio (1998). Qui il Papa diceva che sono necessarie entrambe queste ali per volare nel cielo del mistero divino. Sant’Agostino giungeva al punto di scrivere: «Chiunque crede pensa e pensando crede. La fede se non è pensata è nulla».

L’autentico credente deve procedere sul crinale tagliente di un monte con due versanti, entrambi rischiosi. Da un lato, è facile scivolare verso una fede che sia solo fiducia quasi cieca, rifuggendo da ogni interrogativo, cancellando ogni fremito del pensiero e scadendo in un sentimentalismo devozionale. D’altro lato, è ugualmente pericoloso inoltrarsi solo sul versante opposto di una razionalità così assorbente da ridurre la religione a una serie di teoremi, a una sorta di geometria teologica che non lascia spazio al mistero e al trascendente.

Suggestiva è, al riguardo, la definizione della fede che ci è offerta da quella grandiosa omelia neotestamentaria che è la Lettera agli Ebrei: «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (11,1). C’è l’affidarsi fiducioso alla rivelazione divina, alla speranza che ci viene fatta balenare: non per nulla si parla di «fondamento», di base su cui appoggiarsi, come suggerisce lo stesso verbo ebraico biblico del «credere», divenuto il nostro amen, che indica un «fondarsi» sulla parola e sulla presenza di Dio, un cercare in lui stabilità e sicurezza in un rapporto interpersonale.

La fede esige, però, anche la «prova», cioè l’argomentazione, la riflessione, come traduceva Dante con questa parafrasi della frase biblica citata: «Fede è sustanza di cose sperate, / ed argomento de le non parventi” (Paradiso XXIV, 64-65). «La fede se non è pensata – e quindi argomentata – è nulla», era la convinzione di sant’Agostino. E questo grande Padre della Chiesa è forse – con san Tommaso d’Aquino – l’esempio più alto dell’equilibrio tra fede e ragione. La potenza straordinaria del suo pensiero e della sua ricerca si sposava con l’intensità della sua fede, tant’è vero che spesso i suoi testi sono segnati dalle invocazioni tipiche della preghiera. La sua analisi teologica è molte volte rivolta a un «Tu», è un costante appello orante indirizzato a Dio, oggetto della ricerca intensa della sua mente.

Concludendo, il nesso fede e ragione non cancella ma integra la fiducia, non riesce ad esaurire il mistero ma cerca di penetrarlo, non esclude l’abbandono amoroso a Dio ma lo giustifica. Il secolare impegno dei teologi nel loro studio e la conoscenza attraverso una catechesi ben fondata riescono a smentire la famosa accusa di Marx secondo cui la religione sarebbe «l’oppio dei popoli», un sedativo inoculato ai fedeli per reprimere ogni ansia di giustizia e di riforma sociale.


09.11.2023



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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