Giudizio e scomunica

Spesso accade che le domande rivolte al biblista riguardino testi spinosi anche neotestamentari. Per questa nostra particolare rubrica dedicata proprio ai quesiti ne ho scelto uno riguardante un passo paolino piuttosto severo di prassi ecclesiale. Sappiamo dalla Prima Lettera ai Corinzi quanto tormentata fosse quella giovane comunità cristiana. Non s’era fatta mancare anche un caso d’incesto di un fedele con la moglie di suo padre.

L’apostolo è sbrigativo e gli commina la scomunica: il termine non è biblico; tuttavia l’«anatema» e l’esclusione dalla comunità erano già noti nell’Antico Testamento. Ecco la sostanza delle sue parole: «Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito [Paolo è assente, forse a Efeso], insieme al potere del Signore nostro Gesù, questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore» (5,4-5).

Per sostenere la sua decisione l’apostolo, ribadendo la necessità di giudicare «coloro che sono all’interno» della comunità cristiana, appella a un monito del Deuteronomio: «Togliete il malvagio di mezzo a voi!» (13,6). Questa esigenza, in un certo senso, era presente già nelle parole di Gesù che, oltre ad aver prospettato il giudizio finale (quello che Paolo chiama «il giorno del Signore») nella famosa scena del c. 25 di Matteo (vv. 31-46), aveva definito nel suo discorso “ecclesiale”, riferito sempre da Matteo, una normativa di tre gradi di giudizio interni alla comunità cristiana.

Innanzitutto, l’ammonizione personale nei confronti del fratello che sbaglia; poi la correzione col coinvolgimento di due o tre persone qualificate; e, infine, il giudizio pubblico davanti alla Chiesa, riunita in assemblea (18,15-18). C’è, infatti, un potere di «legare e sciogliere» – espressione biblica per indicare il giudizio – delegato da Cristo a Pietro (Matteo 16,19), agli apostoli (Giovanni 20,23) e alla Chiesa (Matteo 18,18).

Questo giudizio, che può approdare alla “scomunica” dalla comunità ecclesiale è, quindi, radicato proprio nel mandato del Signore appena citato: san Paolo nel passo da noi riferito in apertura parlava chiaramente del «potere del Signore nostro Gesù» e di un atto compiuto «nel nome del Signore nostro Gesù», e reso esplicito dall’assemblea dei fedeli in unione con l’apostolo («radunati voi e il mio spirito»). Questo gesto, però, non dev’essere meramente punitivo ma educativo. È quasi una lezione pedagogica perché il peccatore scopra la sua colpa, senta la necessità della comunione perduta e si converta, venendo così riammesso.

Infatti, come si è visto, il monito paolino si concludeva letteralmente con una finale specifica: «Questo individuo [l’incestuoso] sia dato in balìa a Satana per la rovina della sua carne [cioè del suo peccato], affinché il suo spirito [purificato e rinnovato] possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore» (5,5). La legge della Chiesa ha, dunque, la missione di giudicare ma non per una condanna fine a sé stessa, bensì per far rinascere nel cuore del fratello peccatore l’anelito alla purificazione e al ritorno alla piena comunione, così che nel giorno del giudizio finale e definitivo possa essere accolto tra i salvati. È ancora l’apostolo Paolo che, nella Seconda Lettera a loro indirizzata, invitava i cristiani di Tessalonica a «non trattare il disobbediente come nemico ma ad ammonirlo come un fratello» (3,15).


07.03.2024



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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