Homo faber: il compito di coltivare e custodire

Questi due verbi definiscono il rapporto degli esseri umani con la terra che sono chiamati a lavorare e corrispondono all’impegno nei confronti dell’alleanza con Dio.

Stiamo delineando un ritratto dell’uomo e della donna nel contesto della natura materiale e del mondo animale. Tante volte l’arte ha immaginato questa scena rendendola attraverso panorami mirabili e «paradisiaci», popolati di paesaggi verdeggianti e di folle di animali, mentre loro due, chiamati simbolicamente Adamo («uomo») ed Eva («vivente»), stanno al centro nudi in tutta la loro bellezza. Tra le infinite variazioni di queste raffigurazioni evoco – per il legame che ho attualmente coi Musei Vaticani – l’imponente tela, presente nella sala XVI della Pinacoteca, dipinta dall’austriaco ottocentesco Wenzel Peter: si pensi che il pittore ha introdotto più di 220 specie vegetali e animali.

Abbiamo già avuto occasione di precisare quale sia questo nesso tra umanità e Creato attraverso l’accurata definizione dei due verbi «soggiogare e dominare» (Genesi 1,26.28), applicati spesso in modo tirannico dall’uomo nella sua storia. Essi, in realtà, nell’originale ebraico rimandano all’insediamento o alla conquista di un territorio (kabash – soggiogare) e all’azione del pastore che guida il suo gregge (radah – dominare). Nel libro della Genesi c’è però un’ulteriore definizione del rapporto umano con il Creato attraverso un’altra coppia verbale: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (2,15).

È la rappresentazione dell’homo faber, il lavoratore che trasforma e tutela la natura con la quale ha una relazione di «alleanza». Infatti i due verbi «coltivare e custodire» nell’originale ebraico (‘abad e shamar) hanno anche il significato di «servire e osservare». Essi sono gli stessi termini usati per puntualizzare l’impegno nei confronti dell’«alleanza» con Dio: da un lato il «servizio» del culto e della preghiera; dall’altro l’adesione alla legge divina «osservandola» nella vita quotidiana. C’è, allora, oltre a quello con Dio, un altro patto dell’umanità con la terra per cui il lavoro, il rispetto e lo sviluppo del Creato fanno parte della stessa religione e dell’etica biblica.

Il lavoro nelle Sacre Scritture non è quindi una condanna, ma una dignità, è solo il peccato – cioè la prevaricazione e l’oppressione – che lo rende alienante, come si dichiarerà nella stessa Genesi: «Maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita!» (3,17). Per questo c’è una vera spiritualità del lavoro che è esaltata soprattutto da san Paolo, che non esitava ad «affaticarsi operando con le sue mani»  (1Corinzi 4,12), fabbricando tende per non essere di peso a nessuno: «Non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di nessuno, ma abbiamo lavorato duramente, giorno e notte, per non essere di peso ad alcuno di voi» (2Tessalonicesi 3,7-8).

Ed è con la serenità di chi sa di «aver lavorato onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi è in necessità» (Efesini 4,28) che l’Apostolo ammonisce ancora i Tessalonicesi: «Vi abbiamo dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi» (3,10). Curiosamente questa frase era entrata persino nella Costituzione dell’ex Unione Sovietica, tanto l’impegno nel «coltivare e custodire» la terra attraverso il lavoro è riconosciuto come necessario in ogni società, che purtroppo, però, spesso non ne tutela la dignità e i diritti.


14.05.2020



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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