Il primo dei vizi

«Dovunque egli arrivi, il superbo si mette a sedere e tira fuori dalla valigia la sua superiorità». Così, con la sua penna pungente, Elias Canetti, scrittore ebreo bulgaro-tedesco, Nobel 1981, tracciava un profilo ironico della persona arrogante e orgogliosa. Non per nulla il primo del settenario dei vizi capitali è la superbia, alla quale dedicheremo alcune puntate del nostro viaggio nell’orizzonte cupo dei peccati. Come spesso si è detto in passato, ogni vizio sboccia da una virtù calpestata. In questo caso è importante ricordare che l’autostima e il riconoscimento dei propri talenti da sviluppare è un atteggiamento virtuoso, così come lo è essere coscienti dei «carismi» che ciascuno di noi ha ricevuto da Dio per il bene comune (così san Paolo in 1Corinzi 12,7).

L’egolatria, che è la religione del superbo, è invece idolatria: essa sostituisce al vero Dio infinito ed eterno una divinità limitata, una scimmiottatura, che però è ugualmente esigente perché comporta spesso la perdita del senso della misura. Iniziando questo nostro percorso all’interno di un vizio che sonnecchia in tutti noi, proponiamo subito ai nostri lettori la radice biblica di questa degenerazione, descritta in una pagina famosa in apertura alla Sacra Scrittura stessa. Siamo, infatti, nel c. 3 della Genesi. Nella pagina precedente c’è la rappresentazione della creatura umana, l’uomo e la donna, collocati all’ombra di un albero non botanico ma simbolico.

Il suo nome è, infatti, «albero della conoscenza del bene e del male», segno evidente della morale. La persona umana è davanti ad esso con la possibilità di una duplice scelta: rispettare il frutto, ossia i valori morali definiti da parte di Dio stesso, oppure decidere di afferrare e cibarsi di quel frutto, determinando in proprio la nuova morale, cioè quali siano il bene e il male. Scatta qui la grande tentazione diabolica, incarnata simbolicamente nel serpente. Essa delinea la vera natura del «peccato originale», la scelta negativa radicale, principio e causa di ogni altra colpa.

Le parole del serpente tentatore sono nette: «Quando voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male» (3,5). È la perfetta definizione della superbia: il voler essere come Dio, arbitri della morale. L’intero c. 3 e la sequenza narrativa dei successivi capitoli fino all’undicesimo della Genesi hanno lo scopo di illustrare i risultati deleteri di questa assunzione orgogliosa di responsabilità da parte dell’uomo. Si infrange il rapporto tra uomo e donna; si spezza l’armonia con la natura che è ridotta a un deserto; si viene allontanati dallo spazio della comunione con Dio, l’Eden; subentra l’assassinio fratricida di Abele da parte di Caino; dilaga la corruzione e il male che vengono cancellati dal giudizio divino del diluvio; si erge la torre di Babele, segno dell’imperialismo aggressivo.

Abbiamo iniziato con una testimonianza letteraria sulla superbia. Concludiamo facendo risuonare la voce dolcemente ironica di un noto poeta romanesco, Trilussa, coi versi della sua Lumaca: «La Lumachella della Vanagloria, / ch’era strisciata sopra un obbelisco, / guardò la bava e disse: Già capisco / che lascerò un’impronta ne la storia».

 


02.02.2023



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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