KOHEN: sacerdote

Il ruolo del sacerdozio nell’Antico Testamento è simile alle altre religioni e consiste in una sorta di “ponte” di comunicazione tra il mistero divino e la realtà “profana”

 

Alcuni conoscono il termine ebraico, che ora presenteremo, nel cognome Coen (in ebraico kohen, «sacerdote») portato da varie famiglie di matrice giudaica e il rimando è a ipotetiche o reali ascendenze sacerdotali. Sappiamo, infatti, che il sacerdozio anticotestamentario era quasi «genetico», connesso alla nascita nella tribù di Levi, a differenza di quello cristiano di natura «carismatica», cioè per vocazione divina alla maniera profetica.

È per questo che Gesù non è sacerdote nel senso levitico perché appartiene alla tribù di Giuda e la Lettera agli Ebrei osserva appunto che «il Signore nostro è germogliato da Giuda e di questa tribù Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio… Perciò, se Gesù fosse sulla terra non sarebbe neppure sacerdote» (7,14; 8,4).

In tutte le religioni, sia pure con gradazioni diverse, esistono dei «professionisti» del sacro: essi sono abilitati – spesso attraverso una consacrazione rituale – a entrare in comunione col mistero divino e a stabilire una sorta di ponte di comunicazione col «profano», ossia con quanto è posto alla soglia e all’esterno del tempio. Questa concezione ha il rischio di isolare sacralmente il sacerdote, rendendolo espressione di una realtà e di un’area intangibile, staccata dal resto della comunità. È ciò che affiora talora anche nella complessa legislazione liturgica biblica, espressa in particolare nel libro del Levitico. Tuttavia questa cortina sacra ha anche il pregio di esaltare la trascendenza di Dio che non è riducibile all’orizzonte terreno, né è manipolabile, né è opera delle mani d’uomo.

C’è, però, anche un’altra consapevolezza riguardo al sacerdozio nelle pagine bibliche. Ai piedi del Sinai la voce del Signore scende dalla vetta del monte su tutto Israele con questa dichiarazione: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Esodo 19,6). Il Nuovo Testamento riprenderà questa definizione applicandola alla Chiesa (1Pietro 2,9) e agli eletti (Apocalisse 5,10). Essa è stata oggetto di varie interpretazioni, almeno per quanto riguarda il tenore della citazione originaria. C’è, comunque, una certa convinzione che, come accade per la tribù sacerdotale di Levi nei confronti delle altre tribù di Israele, così anche l’intero popolo di Dio ha una sua specifica consacrazione che lo rende testimone e ministro di salvezza per tutte le altre nazioni della terra.

Potremmo in sintesi dire che il kohen ebraico è il mediatore degli uomini verso Dio, mentre il nabî, il «profeta» (termine già spiegato in passato), è il mediatore di Dio verso gli uomini. Per questa ragione i sacerdoti sono stati spesso legati al potere politico ed essi stessi ne sono stati detentori, come nel caso dei Sadducei del tempo di Gesù, che si collegavano idealmente a Sadok sommo sacerdote col re Davide (1Re 1,26). I profeti, invece, erano molto più liberi e critici, in nome della verità, della giustizia e della parola di Dio.

Un cenno conclusivo a parte merita la figura di Melchisedek, re di Salem (Gerusalemme), «sacerdote del Dio altissimo». Come è noto, è lui a benedire Abramo, offrendogli pane e vino come segno di alleanza (Genesi 14,17-20). Ora, la sua figura verrà vista come l’archetipo di un altro sacerdozio rispetto a quello levitico, un sacerdozio regale. Nel Salmo 110,4, infatti, al re davidico il Signore dichiara: «Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek». La citata Lettera agli Ebrei applicherà a Gesù proprio il sacerdozio di Melchisedek (c. 7), diverso da quello dei figli di Levi.


21.10.2021



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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