KÝRIOS: signore

Nel nuovo Messale ci siamo ormai abituati a ripetere una frase greca già prima popolare e che era tipica della liturgia bizantina e latina, Kýrie eléison. A suo tempo abbiamo spiegato il verbo che è alla base dell’eléison, «abbi pietà, misericordia». Ora ci fermeremo sul sostantivo Kýrios, «Signore», un vocabolo che trionfa nel Nuovo Testamento perché risuona ben 717 volte. Nel mondo profano greco aveva un’applicazione variegata: indicava il padrone o il proprietario o una personalità di rilievo, ma anche gli stessi dèi come Zeus o Iside, e spesso l’imperatore romano come Augusto.

È forse con un’allusione polemica al culto imperiale che san Paolo scriveva: «Noi abbiamo un solo Signore (Kýrios), Gesù Cristo, in virtù del quale tutto esiste e noi esistiamo grazie a lui» (1Corinzi 8,6). L’apostolo attribuisce questo titolo soprattutto al Cristo risorto e glorioso e, per comprenderne la portata, è necessario risalire a un dato significativo. Nelle citazioni dell’Antico Testamento presenti nel Nuovo il Dio di Israele (Jahweh) è tradotto proprio con la parola Kýrios. Si può, quindi, immaginare quanto risultasse forte l’attribuzione a Gesù di un titolo così sacro e supremo.

Certo, in alcuni racconti dei miracoli l’appellativo «Signore» rivolto a Gesù può essere solo un segno di rispetto, come nell’uso che ne fanno la donna sirofenicia, il padre del ragazzo epilettico ai piedi del monte della Trasfigurazione, i ciechi o i lebbrosi, la donna samaritana, il funzionario regio di Cafarnao che a Cana chiede la guarigione del figlio malato, l’adultera sulla spianata del Tempio, Zaccheo o il centurione romano col servo infermo e così via.

Ma il titolo acquista una sfumatura più alta quando sono i discepoli o Marta e Maria a rivolgersi al Maestro con questo appellativo. È ciò che accade anche nella vicenda del cieco nato narrata nel c. 9 del Vangelo di Giovanni. All’inizio, infatti, Cristo è per lui solo un «uomo chiamato Gesù», poi lo riconosce come un «profeta», «venuto da Dio»; infine, quando Cristo lo interpella con una definizione messianica importante: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?», il cieco guarito professa la sua fede piena di convertito: «Credo, Signore (Kýrie)! E si prostrò innanzi a lui».

Abbiamo, quindi, proposto in questo tempo pasquale un’invocazione liturgica che riflette la fede pasquale della comunità cristiana delle origini. Emblematico è il celebre inno incastonato nella Lettera di Paolo ai Filippesi (2,6-11) che invitiamo a leggere e a usare come preghiera di lode e gloria al Signore. Citiamo solo la finale quando per tre volte l’apostolo esalta il «nome» per eccellenza assegnato al Cristo pasquale: «Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il Kýrios, a gloria di Dio Padre».

Per questo non di rado si legge nei testi paolini un’antica professione di fede: «Gesù è il Kýrios» (1Corinzi 12,3; Romani 10,9) e l’apostolo ci fa anche sentire la versione, nella lingua popolare di allora, l’aramaico, di questa invocazione all’unico Signore e Salvatore, allora in uso nella liturgia: «Maranatha’, Signore (Kýrios) vieni!». Perciò, «se qualcuno non ama il Kýrios, sia anatema!» (1Corinzi 16,22). 

 

 

 


12.05.2022



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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