La moglie Giuditta

"Giuditta e la testa di Oloferne", dipinto di Orazio Gentileschi (1563-1639). Vaticano, Pinacoteca.  "Giuditta e la testa di Oloferne", dipinto di Orazio Gentileschi (1563-1639). Vaticano, Pinacoteca.  È un libro che ha conquistato la storia dell’arte soprattutto per una scena truculenta: una donna impugna la scimitarra, spicca con un colpo netto la testa di un generale ubriaco, l’afferra e la consegna alla sua ancella perché la riponga nella sua borsa. Parliamo di Giuditta, la “giudea”, rappresentata spesso con la testa sanguinante di Oloferne in mano, il nemico degli Ebrei (Tintoretto, Tiziano, Rubens, Orazio Gentileschi, Donatello,  fino a Klimt che la vede come l’emblema della “donna fatale” che unisce in sé sessualità e potere).
Non vogliamo riproporre quest’opera biblica, giunta a noi in greco (la versione latina di san Girolamo suppone un testo differente di matrice aramaica): essa è un racconto esemplare romanzesco che attinge liberamente a echi storici di vicende di oppressione subite dal popolo ebraico. Vogliamo solo esaltare due componenti adatte al tema “familiare” di questa rubrica.
Il primo è da cercare nell’anagrafe di questa donna, «bella d’aspetto, molto avvenente» e appartenente all’alta borghesia della sua città, Betulia (allusione a Betel, “casa di Dio”). È, infatti, coniugata con un ricco proprietario terriero, Manasse. Costui, però, un giorno subisce un incidente sul lavoro: «Mentre stava sorvegliando quelli che legavano i covoni nella sua campagna, fu colpito da un’insolazione; dovette mettersi a  letto ma alla fine morì» (8,3). Giuditta rimane, perciò, vedova.
Questo stato, non raro nei racconti biblici, è vissuto dalla donna con grande intensità, aderendo alla prassi di lutto e di penitenza tradizionalmente legata alla vedovanza in una società di matrice maschilista. Nonostante la sua bellezza e la fama che la circondava dopo il suo gesto clamoroso che segnò la liberazione di Betulia assediata da Oloferne, rimase sempre idealmente e affettivamente legata al suo Manasse. «Molti se ne invaghirono, ma nessun uomo poté conoscerla [avere rapporti sessuali] per tutti i giorni della sua vita» (16,22).
Giuditta è, perciò, il segno di un amore profondo che va oltre la morte e non conosce incrinature, oltre a essere espressione di una vedovanza generosa, dedita alla comunità di appartenenza e ai parenti ai quali lascerà i suoi beni materiali (16,24). C’è, però,  un altro tema da sottolineare. Come per altre donne bibliche, Debora, Giaele, Ester, vere e proprie eroine di Israele, in questo libro si vuole celebrare la scelta di Dio che non si affida ai maschi potenti ma all’apparente debolezza femminile, che si rivela come una potenza straordinaria.
La sfida tra Giuditta e Oloferne è, allora, il contrasto tra il Signore che sceglie la paradossale forza della debolezza, fatta di sapienza e intelligenza, e il potere militare assiro altezzoso e arrogante. Interessante è anche l’alto senso civico che la donna ebrea manifesta sia nel suo intervento pubblico davanti ai cittadini di Betulia (8,11-27), sia nel suo agire efficace e abile per difendere la dignità e la libertà sua e della sua gente. Una figura femminile, quindi, “moderna” e un vero e proprio simbolo, al di là dell’enfasi nazionalistica del racconto.


13.11.2015



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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