La storia drammatica della bella Tamar

È una storia antica, eppure ha una terribile attualità, registrata negli incessanti infami femminicidi o nella violenza sessuale, alimentata solo da un istinto bestiale e da un senso di possesso e di dominio. La vicenda è narrata nel c. 13 del Secondo Libro di Samuele e ha per protagonista una giovane donna affascinante, figlia del re Davide. Il suo nome è Tamar, «palma», slanciata e flessuosa com’è quest’albero delle oasi. Di lei si invaghisce, non ricambiato, un fratellastro, Amnon: «Tale era la passione che lo aveva assalito da cadere malato». 

Scatta la tresca per la seduzione su consiglio del solito amico malizioso: «Mettiti a letto e fingiti malato» e chiedi a Tamar di venirti a «preparare un paio di frittelle sotto i tuoi occhi». E il racconto biblico raggiunge il suo acme. Dopo aver allontanato tutti e dopo che la ragazza gli ha portato la vivanda, «mentre gliela dava da mangiare, Amnon afferrò Tamar e le disse: Dai, unisciti a me, amore mio! Ed essa: No, fratello mio, non farmi violenza… Non commettere quest’infamia!».

«Egli, però, non ne volle sapere: era più forte di lei e la violentò unendosi a lei. Dopo l’atto, Amnon provò verso di lei un odio grandissimo: l’odio che sentiva verso di lei era ben più potente dell’amore con cui l’aveva prima amata. Le disse: «E ora, alzati e vattene via!... Chiamato il suo domestico ordinò: Cacciami fuori costei e sprangale dietro il battente!». È difficile aggiungere altro alla rappresentazione di questo sfogo brutale di una passione cieca, che sbocca in una violenza carnale e che ha come bieco esito finale nausea e ribrezzo, anzi, odio e detestazione per colei che prima era oggetto del desiderio. Sì, perché solo di «oggetto» si era trattato, bello, attraente, allettante, e nulla più. Questa diventa, in ultima analisi, la parabola di un atto di lussuria nel suo nodo tenebroso originario.

Si sente spesso ripetere da molti un detto latino che suona così: Post coitum omne animal triste, «dopo l’accoppiamento ogni essere animale è triste». Di solito si assegna questa osservazione ad Aristotele, ma senza fondamento. Giovanni Papini nel suo Diavolo (1953) immaginava che Michelangelo avesse quasi incarnato questo motto nella «Notte», la figura femminile delle tombe medicee della basilica di San Lorenzo a Firenze.

Sta di fatto che questo aforisma ha un’indubbia verità umana quando si sottolineano i due sostantivi che lo reggono: si deve trattare di un «coito», cioè di un mero «accoppiamento» carnale, e in azione è l’«animale», un essere che vive e che agisce ma che non ha in sé la carica intima e profonda della persona. Si ritorna appunto al «consumare» l’atto sessuale o, se si vuole, al «possedere», altro verbo impressionante nella sua brutale e scandalosa verità. Dal dono che è di sua natura l’amore, si passa al possesso che è la radice della lussuria. 

Concludiamo con una nota a margine che ci è suggerita dal poeta americano Walt Whitman. Egli nelle sue Foglie d’erba (1855) era convinto che «se c’è qualcosa di sacro, il corpo umano è sacro». Ebbene, nella sessualità senza comunione d’amore si compie una dissacrazione. È per questo che il corpo nudo, senza la tenerezza dei sentimenti o l’intimità della scoperta reciproca genera vergogna: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura perché sono nudo, e mi sono nascosto», confessa Adamo dopo che «i suoi occhi si sono aperti» nella malizia (Genesi 3,10). Prima, invece, «tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (2,25). È, dunque, necessario ridare valore al corpo non come un puro e semplice oggetto carnale, ma come un’espressione dell’anima e una via di comunicazione e di comunione. È questo il vero amore, antipodo della lussuria.


13.04.2023



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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