L'impegno di Tito "vescovo" a Creta
Quelle di Timoteo e Tito sono due storie parallele, come le loro vocazioni al ministero apostolico. Dopo Timoteo ora facciamo salire alla ribalta l’altro discepolo a cui san Paolo indirizza una lettera, Tito. Proprio in quello scritto ci incontriamo con una battuta divenuta celebre per merito di Alessandro Manzoni. Nel capitolo VIII dei Promessi Sposi fra Cristoforo, per placare un fraticello del convento di Pescarenico scandalizzato dall’ingresso di Agnese e Lucia nella clausura, cita un proverbio presente proprio nella Lettera a Tito: Omnia munda mundis è la versione latina della frase «Tutto è puro per chi è puro» (1,15). Una frase che è una sferzata paolina contro l’ipocrisia che si ferma sull’osservanza esteriore e letterale delle regole, ignorandone il contenuto umano e spirituale.
Di origine pagana, come attesta il nome tipicamente latino, Tito era stato forse convertito dall’Apostolo stesso, se si intende in questo senso l’appellativo «mio vero figlio nella fede comune» (1,4). Quanto gli fosse caro appare a più riprese soprattutto nella Seconda Lettera ai Corinzi ove è descritto come il mediatore ufficiale di Paolo con quella turbolenta comunità cristiana greca. Basti soltanto questa citazione: «Giunto a Troade per annunziarvi il vangelo di Cristo, anche se la porta mi era aperta nel Signore, non ebbi pace finché non vi incontrai Tito, mio fratello... Il Dio che consola gli afflitti ci ha consolato con la venuta di Tito» (2Corinzi 2,13; 7,6).
La vocazione apostolica di Tito lo condusse a un livello significativo nella gerarchia incipiente della Chiesa delle origini: fu, infatti, incaricato da Paolo di reggere la comunità cristiana dell’isola di Creta, impresa non facile perché lo stesso Apostolo nella Lettera a Tito bolla quegli abitanti con un motteggio escogitato dal poeta Epimenide di Cnosso (VI sec. a.C.) che non aveva grande stima per i suoi conterranei: «I Cretesi sono sempre bugiardi, brutte bestie e fannulloni!» (1,12).
Infatti la missione che Tito deve espletare è di «mettere ordine in quello che rimane da fare», completando quindi ciò che era stato abbozzato, e di «stabilire alcuni presbiteri in ogni città» dell’isola (1,5). E subito si danno indicazioni contro alcuni sedicenti dottori giudeo-cristiani che Paolo liquida come «insubordinati, chiacchieroni e ingannatori»: a essi Tito deve «chiudere la bocca», «correggendoli con fermezza», smitizzando le loro «favole giudaiche e i precetti di uomini che rifiutano la verità» (1,10-14).
L’impegno del «vescovo» Tito è, poi, articolato dall’Apostolo lungo varie direttrici che toccano gli anziani e le anziane, le donne giovani, i mariti, i giovani, gli schiavi, i sudditi del potere civile. La concretezza dei moniti di Paolo fa comprendere che la vocazione non conduce a ritirarsi in uno spazio protetto, in un’oasi spirituale o a esaurire la propria missione tra le volute d’incenso del tempio. Il discepolo deve entrare nella piazza, senza temere di lasciarsi impolverare dalle vicende quotidiane, senza evitare la lotta contro le degenerazioni, senza ignorare il riso e le lacrime, le feste e i lutti, i successi e i problemi della gente.
Nella finale della Lettera Paolo assegna una serie di incombenze a Tito, al quale però fa balenare il suo affetto e il suo desiderio di rivederlo: «Cerca di venire subito da me a Nicopoli [città in Epiro fondata da Augusto] perché là ho deciso di passare l’inverno». Ogni vocazione per sostenersi e fiorire ha bisogno del calore dell’amicizia fraterna.
03.05.2018
Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana