San Paolo: tre gemiti e l'albero d'ulivo

Nelle sue lettere non usa quasi mai immagini naturali. Tuttavia nella Lettera ai Romani paragona la redenzione alle doglie e spiega il legame Israele-pagani come un innesto

Sulla ribalta di questa nostra rubrica di «ecologia biblica» non abbiamo mai fatto salire san Paolo. La sua è, infatti, una riflessione su Cristo e sull’uomo di taglio esclusivamente teologico, con scarsi elementi narrativi e simbolici. Avremmo potuto coinvolgerlo col tema della corporeità che nella risurrezione ha un rilievo specifico, a differenza dell’immortalità dell’anima tipica della cultura classica. Al massimo avremmo potuto convocarlo – attraverso la testimonianza di san Luca – per l’avventura turbolenta del naufragio, causato da «un vento di uragano detto Euroaquilone» (Atti 27,14), che fece sbattere la sua nave diretta a Roma sulle coste dell’isola di Malta.

Tuttavia nel cuore del suo capolavoro teologico, il cap. 8 della Lettera ai Romani, c’è una potente rappresentazione della salvezza cosmica e non solo umana, espressa attraverso l’immagine del gemito che esce dalle labbra della partoriente. Tre sono i gemiti che s’intrecciano tra loro in questa redenzione di tutta la creazione che è personificata appunto in una donna. C’è innanzitutto quello del creato che «a capo eretto attende da lontano la rivelazione dei figli di Dio» (8,19): «Tutta la creazione geme e soffre fin da ora le doglie del parto» (8,22).

C’è, poi, il gemito della creatura umana: «La creazione non è sola ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito gemiamo interiormente attendendo l’adozione a figli di Dio» (8,23). Infine, echeggia anche un gemito divino: «Lo Spirito stesso viene in aiuto alla nostra debolezza... intercedendo per noi con gemiti ineffabili» (8,26). Natura, umanità e Dio stesso sono impegnati nell’attesa di una redenzione che è destinata a tutto l’essere. Sono quei «cieli nuovi e terra nuova», è quella Gerusalemme nuova nella quale – come canta l’Apocalisse – «Dio abiterà con gli uomini ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (21,1-3).

Possiamo, poi, proporre un’altra immagine naturale che nei capitoli 9-11 della stessa Lettera l’apostolo assume in chiave simbolica per definire la missione di Israele nei confronti della Chiesa. Essa è simile a un olivo, ma la prassi agricola che Paolo presenta è paradossale. L’innesto solitamente lo si compie su un albero selvatico usando un pollone fruttifero. Ora, nella storia della Chiesa è avvenuto il contrario. Infatti sull’olivo dalla «radice santa» che è Israele, è stato innestato un oleastro che «partecipa della radice e della linfa dell’olivo». Si tratta, fuor di metafora, dei pagani convertiti al cristianesimo (si legga Romani 11,16-24).

La speranza dell’apostolo è che questo olivo, innestato con un oleastro, continui a crescere e a fruttificare, tenendo unito – pur nella loro diversità – l’unico popolo di Dio, quello della prima e della nuova alleanza. Attraverso questo simbolo vegetale, Paolo dimostra il suo legame profondo con l’ebraismo, attestato anche dalla comune fede nella Parola di Dio. In queste stesse pagine egli dichiarerà in modo netto e chiaro: «Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne» (Romani 9,3-5). 


05.11.2020



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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