Facciamo salire alla ribalta due figure materne dolenti e coraggiose che nel loro cuore vivono un dramma che spesso si ripete anche ai nostri giorni. I veri protagonisti sono, infatti, i loro giovani figli colpiti dalla morte che spezza le loro vite ancora in fiore. Non abbiamo i nomi dei due personaggi biblici. È, comunque, una tragedia nella tragedia perché le madri che perdono i loro figli sono entrambe vedove, accomunate dalla stessa sofferenza e, alla fine, da una gioia inaspettata.
 La prima donna vive al tempo del profeta Elia, nel IX sec. a.C., a Sarepta, città della Fenicia a sud di Sidone, oggi Sarafand. Il figlio tanto sospirato, sostegno della sua vecchiaia, giace moribondo. Ed ecco entrare in azione il profeta che questa vedova aveva protetto e aiutato durante l’esilio, in fuga dalla persecuzione della regina di Israele Gezabele. Il suo è quasi un atto di rianimazione, bocca a bocca, insufando lo spirito che Elia implora da Dio in dono: «Signore, mio Dio, la vita di questo bambino torni nel suo corpo» (1Re 17,21).
 L’altro evento vede come protagonista Gesù in un villaggio della Galilea, non lontano dal monte Tabor, Nain. Identico è il dramma: «Veniva portato al sepolcro un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova» (Luca 7,12). È suggestivo notare che l’evangelista, nel descrivere il sentimento che Cristo prova di fronte alla disperazione di quella madre, usa il verbo greco splanchnízomai che rimanda all’emozione delle viscere materne: il Signore condivide, quindi, la stessa lacerazione interiore di quella donna. La morte del figlio in questo caso è certa e Gesù compie di persona, con tutta la potenza e l’autorità del Figlio di Dio, l’atto supremo del ridonare la vita, senza l’invocazione pronunziata da Elia: «Ragazzo, dico a te, alzati!» (7,14).
 Spostiamo ora l’attenzione sulla vedova madre, che ha grande rilievo in tutta la Bibbia. La Parola sacra la pone sotto la diretta tutela di Dio, avendo perso il suo go’el o “difensore”, cioè il marito e il figlio. È per questo che è appaiata all’orfano nella normativa legislativa: «Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido» (Esodo 22,21-22). Il profeta Isaia ammoniva: «Rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (1,17). Dio è invocato come «padre degli orfani e difensore delle vedove...; egli sostiene l’orfano e la vedova» (Salmi 68,6; 146,9).
 Nel Nuovo Testamento è Gesù stesso che porta come modello «una vedova povera che... nella sua miseria dà [al Tempio] tutto quanto aveva per vivere» (Luca 21,1-4). La comunità cristiana delle origini si premurerà di sostenere le vedove (Atti 6,1; 9,39), insegnando che «religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro sofferenze...» (Giacomo 1,27). Nella Chiesa le vedove acquisteranno un rilievo sempre più significativo al punto da costituire una sorta di associazione, con uno statuto specifico (qualcosa di simile a una congregazione religiosa femminile). È ciò che appare, ad esempio, nel paragrafo dedicato da san Paolo alle vedove giovani nella Prima Lettera a Timoteo (5,3-16).
 Concludiamo ritornando ai loro figli, morti prematuramente, lasciando alle spalle una traccia infinita di dolore. Spesso è un incidente stradale, altre volte è una straziante malattia. Purtroppo non di rado è il vuoto interiore che fa precipitare il giovane nella droga e persino nel suicidio. Perciò, in molti casi può valere il grido del poeta francese Paul Verlaine, dalla vita sregolata che lo condurrà a morire consumato a 52 anni nel 1896: «Che cosa hai fatto tu che piangi e non cessi di piangere, dimmi, che cosa hai fatto della tua giovinezza?».
 																			
										01.06.2017
										
																		
						
																		
									Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana