Gli istinti e la luce della temperanza

L'ultima delle quattro virtù cardinali è la temperanza. La scorsa settimana abbiamo illustrato il collegamento dominante di questa virtù con uno degli istinti fondamentali, quello della nutrizione, e quindi in causa era il nostro rapporto col cibo. Tuttavia la temperanza rimanda più in generale a un arco molto largo di comportamenti, a partire dalla sessualità, un discorso complesso che abbiamo in passato affrontato trattando il vizio della lussuria. Si tratta di un tema che nella cultura contemporanea è sviluppato anche col ricorso alle discipline psicologiche.

Non possiamo trattare ora questo aspetto che coinvolge questioni come la castità, la pudicizia, l’eros, l’amore perché esse varcano il territorio piuttosto delimitato della temperanza, che sul tema sessuale offre solo indicazioni generali. Non dobbiamo, però, dimenticare che l’essere umano è capace, sì, di sessualità come l’animale, ma conosce anche la possibilità superiore del sentimento, della passione, della tenerezza, dell’estetica, della poesia, e può ascendere fino all’amore che è donazione reciproca, espressa in modo folgorante della donna del Cantico dei cantici: «Il mio amato è mio e io sono sua... Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3).

La virtù della temperanza, nella sua funzione più profonda, è quella di essere il nodo d'oro che tiene insieme sesso-sentimento-amore, impedendo che la trilogia s'infranga, lasciando spazio a una bruta e incotrollata sessualità oppure, al contario, a una eterea e puritana spiritualità disincarnata. La ricerca di questo delicato punto di equilibrio risiede nella capacità che la persona umana ha di guidare e governare con la sua volontà e con la ragione la sfera istintuale, sensoriale e passionale. La temperanza partecipa, perciò, della signoria che la coscienza morale esercita sull’insieme della persona. Essa ha il compito di modificare, regolare, organizzare, moderare e orientare il variegato sistema dei nostri istinti. La temperanza, allora, va oltre il controllo della genitalità o del gusto e diviene arbitra anche della vista, dell’odorato, dell’udito e può avere nuove applicazioni. Pensiamo soltanto a quanto sia rilevante l’esercizio di questa virtù nei confronti del dramma provocato dalle sostanze stupefacenti, nuova tipologia di una sindrome sociale che si sovrappone a quella antica e imperitura dell’etilismo e del tabgismo. Ma, per muoverci verso le tonalità più alte dell’arco di applicazioni a cui accennavamo, pensiamo anche alla funzione della temperanza nelle pieghe dell’orgoglio, dell’arroganza e della prevaricazione.

Suggestivo, a questo proposito, è l’invito morale reiterato da san Paolo nella Lettera ai Romani: «Non valutatevi più di quanto è conveniente valutarvi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione… Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (12,3.16). Il verbo greco ripetuto con varianti dall’Apostolo rimanda appunto al vocabolo sofrosýne («temperanza»). Sotto il manto di questa virtù, dal nome forse in disuso, si nascondono quindi molte altre qualità umane e spirituali necessarie perché si attui in pienezza la dignità genuina della persona, in particolare del cristiano. È ancora Paolo a indicarlo: «Voi tutti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte e delle tenebre. Non dormiamo, dunque, come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri. Quelli che dormono, infatti, dormono di notte e quelli che si ubriacano sono ubriachi di notte. Noi invece che siamo del giorno, dobbiamo essere sobri, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza» (1Tessalonicesi 5,5-8).


26.10.2023



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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