L'ultima tra le cardinali

Nel libro della Sapienza la virtù della temperanza, posta attualmente come ultima nella sequenza delle quattro virtù cardinali, occupava invece la prima posizione: «La Sapienza insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza» (8,7). Nell’accezione comune essa è di solito ricondotta all’ambito alimentare, ma in realtà i termini che la definivano nella classicità greca supponevano un orizzonte più ampio: enkráteia, cioè «dominio di sé, autocontrollo», e sofrosýne, ossia «saggezza, esercizio corretto dei pensieri e delle passioni». Erano, quindi, coinvolte alcune dimensioni importanti della persona umana che devono essere sottoposte a un dominio e a una moderazione: il possesso delle cose, l’orgoglio, la sensualità, la sessualità e, naturalmente, anche l’alimentazione. Iniziamo proprio da quest’ultimo aspetto, rilevante perché il cibo in tutte le civiltà ha un valore non solo fisiologico ma simbolico. Pensiamo al bel film Il pranzo di Babette che il regista danese Gabriel Axel ha tratto nel 1987 da un racconto della sua connazionale Karen Blixen. La trama è suggestiva e fin “cristiana”: l’esule francese Babette, riparata in un villaggio scandinavo durante i giorni  della Comune francese, coi soldi ricavati da una lotteria decide di imbandire per gli abitanti di quel piccolo centro un pranzo favoloso come segno di gratitudine e di comunione fraterna.

Sappiamo, però, che in agguato c’è sempre la perversione e il cibo, segno di vita e di amicizia, può essere fuorviato e fatto degenerare. Potremmo, allora, ricorrere a un altro film per illustrare il rovescio della medaglia. È La grande abbuffata che Marco Ferreri ha girato nel 1973. Quattro amici si avviano verso un cupo suicidio attraverso un’orgia di cibo e di sesso, consumata in una specie di “ritiro” in una vecchia villa parigina. Moriranno affogati da carni, dolci e vini uno dopo l’altro in un macabro rituale officiato da una donna, una sorta di sacerdotessa pagana.

Dobbiamo, allora, introdurre la temperanza, la virtù che combatte proprio il vizio della gola, che in passato abbiamo già illustrato. Il tema appare anche nella Bibbia in modo vivace. Nelle sue stesse prime pagine, ecco la figura di Noè umiliato da un suo figlio proprio mentre è travolto nei fumi dell’ebbrezza (Genesi 9,20-27). Il libro dei Proverbi ci ha lasciato questo vivacissimo bozzetto dell’ubriaco: «Per chi i guai, i lamenti, i litigi, i gemiti? A chi le percosse per futili motivi? A chi gli occhi rossi? Per quelli che si perdono dietro al vino e vanno a gustare vino puro. Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa e scende giù dolcemente. Finirà col morderti come un serpente e pungerti come una vipera. I tuoi occhi vedranno cose strane, la tua mente penserà cose sconnesse. Ti parrà di giacere in alto mare o di dormire in cima all’albero maestro… E quando mi sveglierò? Ne chiederò dell’altro!» (23,29-35).

Anche Gesù conosce nel suo insegnamento la depravazione nei confronti del cibo e la connota con una nuova applicazione di morale sociale: chi non ricorda la parabola del povero Lazzaro e del ricco gaudente (Luca 16,19-31)? La tradizione popolare ha usato un aggettivo obsoleto ma efficace per designare quel ricco: «epulone», dal latino epulae, «banchetto». Il contrasto è forte e va ben oltre una mera lezione moralistica puntando a una denuncia che, oltre la temperanza, coinvolge anche la giustizia e la carità. Già il profeta Isaia ribadiva che il vero digiuno è «dividere il pane con l’affamato» (58,7). E questo vale soprattutto nel nostro mondo abituato al consumismo e allo spreco, mentre ci sono continenti affamati, assetati e aggrappati agli scarti delle nostre tavole.


19.10.2023



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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