HAMARTÍA: peccato

Il poeta francese Paul Claudel ha coniato una battuta suggestiva: «Dio ha fatto l’uomo, e il peccato l’ha contraffatto». Come insegnano le prime pagine della Genesi, all’armonia della creatura uscita dalle mani di Dio è subentrata – attraverso la libertà umana che è dono e rischio – la degenerazione che coinvolge tutte le relazioni umane. È per questo che i vocaboli ebraici biblici coi quali si designa il peccato indicano a livello etimologico un fallire la meta, un deviare dal retto sentiero, una ribellione insensata. Nel greco del Nuovo Testamento, che noi stiamo ora proponendo, il termine fondamentale è hamartía.

Esso risuona 173 volte (48 volte nella sola Lettera ai Romani) ed è seguito da un corollario di derivati come il verbo hamartánô, «peccare» (43 volte), hamartôlós, «peccatore» (47 volte). Noi lo incastoniamo in questo periodo quaresimale, un tempo nel quale si è stimolati al pentimento dal male e alla conversione. Giovanni Papini, nel suo scritto Il diavolo (1953), giustamente affermava che «si può entrare nel regno di Dio anche dal portale del peccato», e tanti convertiti (come sant’Agostino) lo attestano.

Il significato primario di quella parola greca è, come per il parallelo ebraico, un mancare per errore o per colpa una meta (significativo è il nostro vocabolo «mancanza» per definire uno sbaglio morale). La riflessione più ampia sul peccato e sulla redenzione ci è offerta da san Paolo. L’uomo è radicato alla sarx, «carne», un termine che in una delle prossime puntate illustreremo, e che per l’apostolo non è tanto la «carnalità» sessuale, bensì la nostra radicale peccaminosità, legata a una libertà ferita. L’avvio di questa vicenda negativa è già in Adamo che rappresenta simbolicamente tutta l’umanità.

Forte è la tentazione di autosalvarci, cercando di sollevarci da quel gorgo oscuro che è in noi attraverso le nostre opere. Siamo come chi, sprofondando in una palude, cerca di sollevarsi alzando le braccia verso l’alto. È, invece, necessario che Dio stenda la sua mano e ci estragga dal fango del peccato per salvarci. Sta a noi, attraverso la nostra libertà e la fede, afferrare quella mano ed essere così sottratti dall’abisso della colpa. Cristo, divenendo uomo, si fa solidale con noi, come scrive san Paolo: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Corinzi 5,21).

Cristo, dunque, che è il Figlio innocente e santo di Dio, si carica del nostro peccato perché trionfi in noi la «giustizia» divina che, nel linguaggio biblico, significa soprattutto «salvezza». Anzi, è possibile che l’apostolo alluda a un’altra idea con questa sua frase, basandosi su un significato ulteriore del termine anticotestamentario che indicava il peccato. Esso, infatti, definiva anche la vittima e il sacrificio per espiare il peccato.

La croce di Cristo è, quindi, un atto di solidarietà perché assume su di sé il peccato del mondo, ma è anche l’atto sacrificale ed espiatorio per eccellenza che cancella il peccato. Come ancora dichiarava Paolo: «Cristo ha dato se stesso per i nostri peccati, così da strapparci da questo mondo perverso, secondo la volontà di Dio e Padre nostro» (Galati 1,4). Il battesimo, così come il sacramento del «rimettere i peccati» affidato alla Chiesa (Matteo 16,19; 18,18; Giovanni 20,23), è l’espressione di questa redenzione: l’uomo «vecchio», peccatore, muore nel sepolcro d’acqua con Cristo morto, ma ne risorge con lui come creatura nuova e figlio adottivo di Dio (Romani 6, 3-11).

 

 


10.03.2022



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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