HORÁÔ: vedere

Primum videre, dicevano gli antichi romani, sottolineando l’importanza assoluta della vista. È anche per questo che nelle lingue si hanno più vocaboli per definire un atto così rilevante. Per esempio, in italiano c’è un «guardare», parola sorta nel XIII sec. dal germanico arcaico wardon, «osservare, sorvegliare», donde «guardia, guardiano, guardaroba», ma c’è soprattutto il «vedere» che deriva invece da una radice indoeuropea, adatta anche a designare il «sapere», e da lì sono fluiti tanti nostri termini come «visibile, veduta, vista, svista, avvistato, avveduto, riveduto, vedetta, intravedere, stravedere» e così via.

Complicato è anche scegliere il verbo del «vedere» nel greco neotestamentario perché si usano diversi vocaboli con sfumature differenti. Noi abbiamo scelto quello più usato, horáô, presente ben 448 volte: nella sua coniugazione un po’ complessa si trova anche la radice del nostro «vedere», cioè eidôn, che domina per circa 350 volte, e che è alla base anche dei libri sacri indiani, i Veda. Noi, però, ci accontenteremo ora di poche note, tenendo presenti due moniti. Il profeta Ezechiele protesta contro gli Israeliti: «Hanno occhi per vedere, eppure non vedono» (12,2), mentre Gesù in positivo ai discepoli dice: «Beati i vostri occhi perché vedono» (Matteo 13,16).

Nel Nuovo Testamento «vedere» significa spesso «riconoscere» nel senso di una professione di fede, soprattutto negli scritti giovannei: «Noi abbiamo visto la sua gloria di Figlio unigenito… Vedrai cose più grandi…; vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo… Signore, vogliamo vedere Gesù… Chi ha visto me ha visto il Padre… Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto… Quello che abbiamo veduto coi nostri occhi… noi lo annunciamo anche a voi» (1,14; 1,50-51; 12,21; 14,9; 20,29; 1Giovanni 1,1-3).

Certo, a più riprese si proclama che Dio è aóratos, «invisibile» (Colossesi 1,15, 1Timoteo 1,17; Ebrei 11,27), perché è mistero, è trascendenza e non può essere racchiuso in un’immagine visiva. Tuttavia, attraverso il Figlio che è sua «icona», cioè raffigurazione visibile («Chi ha visto me, ha visto il Padre»), anche il fedele può penetrare in quell’abisso di luce senza esserne accecato: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» (Matteo 5,8). Nella Gerusalemme celeste «i suoi servi vedranno il suo volto» (Apocalisse 22,4), come era accaduto a Giobbe al termine del suo lungo e drammatico itinerario di ricerca: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). Esperienza che è negata ai perversi: «Chi fa il male non ha veduto Dio» (3Giovanni 11).

Concludiamo questa sintesi minima della «visione» biblica con un’esperienza visiva molto speciale. Il verbo horáô, in una forma particolare della sua coniugazione (ofthê), è usato per descrivere gli incontri con il Cristo risorto, quelli che un po’ impropriamente vengono chiamati «apparizioni». In realtà, i Vangeli dicono semplicemente che egli «si fece vedere», ossia si fa riconoscere in modo personale, come fa notare, per esempio, san Paolo allegando una lista di questi incontri (1Corinzi 15,5-8). Ed è ciò che accade ai discepoli di Emmaus durante lo «spezzare il pane», cioè l’Eucaristia celebrata con il Risorto: «Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista» (Luca 24,31). Cristo si rivela, ma rimane nella gloria del Dio invisibile.


22.09.2022



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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