I consigli di Paolo per le giovani vedove

Arthur Schopenhauer, vissuto tra il Settecento e l’Ottocento, era un filosofo pessimista ma spesso colpiva nel segno: «La serenità e la vitalità della nostra giovinezza derivano in parte dal fatto che, procedendo in salita, non vediamo la morte, perché questa ci attende ai piedi dell’altro versante». Così questa ospite tanto evitata si presenta in maniera inattesa, spesso infrangendo progetti o legami di amore. È il caso delle coppie giovani infrante da una malattia o da un incidente.

Anche san Paolo si è interessato degli sposi giovani, con quelli che sono defi niti “codici” di vita familiare ed ecclesiale. È ciò che fa scrivendo ai suoi due collaboratori più cari, Timoteo e Tito. L’impegno è innanzitutto di ordine generale. A Timoteo suggerisce, nella Prima Lettera che gli indirizza, di «esortare i più giovani come fratelli... e le donne più giovani come sorelle, in tutta purezza» (5,1-2). A Tito consiglia, invece, di «formare le giovani donne all’amore del marito e dei figli, a essere prudenti, caste, dedite alla famiglia, buone, sottomesse ai propri mariti, perché la parola di Dio non venga screditata» (2,4-5).

Lo invita, inoltre, a «esortare i più giovani a essere prudenti, offrendo te stesso come esempio di opere buone: integrità nella dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti svergognato, non avendo nulla di male da dire contro di noi» (2,6-8). Si deduce che anche Tito, messo dall’apostolo a capo della Chiesa di Creta, era ancora giovane.

Riguardo alle vedove, in un lungo paragrafo nella Prima Lettera a Timoteo (5,3-16) si distinguono almeno tre categorie. La prima è composta dalle vedove che devono gestire la loro famiglia e sono autosufficienti. La seconda riguarda le vedove sole al mondo che necessitano dell’assistenza della comunità ecclesiale. In fine, si presentano le vedove iscritte in una sorta di “catalogo”, che espletano alcune funzioni di carità ed educazione nella Chiesa, quasi antesignane delle attuali suore o religiose. Tra queste Paolo punta la sua attenzione sulle vedove giovani che, perso il marito, si vogliono consacrare a Dio.

Le sue parole sono piuttosto aspre per la nostra sensibilità perché riflettono un contesto socio-culturale datato: «Le vedove più giovani non accettarle, perché, quando vogliono sposarsi di nuovo, abbandonano Cristo e si attirano così un giudizio di condanna, perché infedeli al loro primo impegno. Inoltre, non avendo nulla da fare, si abituano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene» (5,11-13).

Il sospetto di Paolo è che esse vengano meno «al loro primo impegno» di consacrazione a Dio e per questo continua: «Desidero che le vedove più giovani si risposino, abbiano fi gli, governino la loro casa, per non dare ai vostri avversari alcun motivo di biasimo. Alcune, infatti, si sono perse dietro a Satana» (5,14-15). Il linguaggio è condizionato dalla società di quel tempo e, tra l’altro, mostra un’evoluzione nel pensiero dell’apostolo che, scrivendo ai Corinzi, dava un consiglio più articolato: «Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io... La moglie è vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito; ma se il marito muore è libera di sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore. Ma se rimane così com’è, a mio parere è meglio» (1Corinzi 7,8.39-40).

Abbiamo, così, una testimonianza della concretezza della prassi pastorale e del suo adattarsi a un preciso orizzonte culturale. Per questo la tradizione della Chiesa deve riflettere i segni dei tempi e attualizzare costantemente la sostanza del messaggio cristiano, tenendo fermi i princìpi fondamentali della fede.


02.03.2017



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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