Una vocazione fallita

«Ogni borghese, nel calore della giovinezza, almeno per un giorno, per un minuto si è sentito capace di immense passioni, di grandi imprese». Questo ardore giovanile, descritto nel famoso romanzo Madame Bovary (1857) di Gustave Flaubert, attraversò un giorno l’anima di un giovane onesto e impegnato. Decise, così, di incontrare quel maestro che tutti consideravano un’eccezione nel panorama grigio del giudaismo di allora. Il suo desiderio era appunto “immenso”: «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?» (Matteo 19,16).

La risposta di Gesù, il rabbì tanto ammirato, era stata secca: aveva semplicemente elencato i comandamenti del Decalogo. Sorpreso, il giovane aveva confessato la sua costante fedeltà a quelle norme che erano state la lampada capace di illuminare tutti i passi della sua ancor breve esistenza. Aveva, perciò, insistito: «Che altro mi manca?». E la replica di Gesù aveva introdotto una nuova definizione: «Se vuoi essere perfetto...» (19,21).

Non si deve equivocare: Cristo non ha intenzione di rimandare a una categoria di “perfetti”, una classe di persone superiori per spiritualità, né tantomeno iscritti a una comunità selezionata, simile a un ordine religioso. La sua è, invece, la logica delle Beatitudini e del Discorso della montagna ove, senza esitazioni, aveva dichiarato: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48). Detto in altri termini, alla logica dell’osservanza di alcuni precetti ben definiti, che occupano alcune scelte e alcuni tempi quotidiani dell’esistenza, aveva sostituito la prospettiva dell’amore.

In questa luce tutta la vita e tutte le azioni sono irradiate da una tensione, da una donazione, da una sorta di filo d’oro permanente che le sostiene. Un innamorato autentico o una madre non sono tali solo quando parlano, agiscono, si dedicano alla persona amata; lo sono sempre, in ogni fibra del loro essere, in ogni minuto del loro esistere, in ogni atto della loro quotidianità. È suggestiva, al riguardo, la confessione della donna del Cantico dei cantici: «Anche quando dormo, il mio cuore veglia» (5,2) amando.

Ora, per raggiungere questa pienezza di amore che supera la pur nobile e giusta osservanza religiosa, è necessario avere l’intera persona libera da realtà che occupano quello spazio interiore. Bisogna essere con lo spirito da poveri, con il cuore totalmente puro, per usare ancora le espressioni delle Beatitudini evangeliche. E uno dei più potenti conquistatori dello spirito, cioè dell’intimità profonda e della personalità intera, è proprio la ricchezza. Per questo, Gesù non esita: «Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e poi vieni e seguimi!» (19,21).

È la tipica radicalità delle scelte che Cristo esige dal suo discepolo, liberandolo dalle pastoie del buon senso, dei modesti equilibri e dei piccoli egoismi. Non è un semplice pauperismo, né un’astinenza nell’uso dei beni, ma un distacco attivo e positivo: «Vendi quello che possiedi e dallo ai poveri».

La scena ha uno sbocco amaro che, come è noto, è suggellato da una frase ove spicca un participio greco, lypoúmenos, “divenuto triste”: «Udita questa parola, il giovane se ne andò, tutto triste: possedeva infatti molte ricchezze» (19,22). Una pietra tombale dorata su una vocazione fallita.


09.03.2017



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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