Immortalità dell’anima o risurrezione della carne?

La Risurrezione di Cristo che celebriamo in questa domenica pasquale solenne, la sorgente di tutte le altre, apre idealmente anche lo scrigno di molte domande che i cristiani (ma un po’ tutta l’umanità) si pongono sull’altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi e segnata dalla frontiera della morte. Abbiamo, così, scelto un quesito arduo da sviluppare in una  pagina.

L’interrogativo di base è semplice: immortalità dell’anima, come insegnava la cultura greca classica, o risurrezione della carne, come si recita nel Credo cristiano? La prima proposta affiora talora anche nella Bibbia, ad esempio nel Libro della Sapienza, un’opera sorta ad Alessandria d’Egitto, una città ellenistica importante. Siamo attorno al 30 a.C. e l’autore ebreo respira quel clima e, presentando l’oltrevita, lo esalta come l’ingresso nell’immortalità beata delle anime, speranza per i giusti (3,4).

Tale dottrina, tuttavia, non ricalca completamente quella greca perché per quest’ultima l’immortalità era una qualità tipica dell’anima spirituale, era una sua dotazione necessaria perché essa era incorruttibile, a differenza del corpo votato alla morte e alla decomposizione. Per l’autore della Sapienza l’immortalità è invece «beata», perché comporta un dono non dovuto, la piena comunione del giusto con Dio, in un’intimità perfetta, tant’è vero che nel Vangelo di Giovanni «vita eterna» è sinonimo di «vita divina».

Veniamo, però, alla specifica concezione cristiana che introduce la «risurrezione della carne». Si noti già la parola «carne» che travalica il concetto comune di «corpo». Infatti nel Nuovo Testamento, se in san Paolo il vocabolo riceve un significato negativo («carne di peccato»), in san Giovanni e in altri testi e nella tradizione ecclesiale designa l’esistenza umana terrena che ha nel corpo la sua espressione visibile, ma copre l’intera trama della nostra storia e della nostra realtà interiore. Celebre è l’asserto giovanneo: «Il Verbo divenne carne» (1,14).

Il nostro futuro ultimo è, perciò, globale e non solo legato all’anima spirituale o al corpo materiale fisico. La stessa visione biblica della persona umana è unitaria, nella quale s’intrecciano le varie dimensioni del nostro essere, quelle fisiche e spirituali, a differenza della civiltà greca che contrapponeva il corpo caduco e l’anima immortale. Nella Pasqua Cristo, assumendo la nostra «carne», cioè la nostra esistenza mortale, depone in essa il germe della sua divinità che è eterna. Per questo la nostra speranza è di seguirlo nella morte e nella risurrezione. 

Nella nostra Pasqua finale la creatura intera sarà quasi ri-creata, la nostra persona sarà inserita nel nuovo orizzonte che non è più legato al tempo e allo spazio, e sarà in comunione con l’eterno e l’infinito divino. È questo un tema che abbiamo intenzione di approfondire nel periodo pasquale che ora si apre davanti a noi. Abbiamo già richiesto una certa fatica al lettore nel comprendere pienamente il discorso sintetico che abbiamo ora svolto. Lo stesso san Paolo, che pure proclama in modo inequivocabile la Risurrezione di Cristo e la nostra, rivela la difficoltà nel formularle, ricorrendo all’immagine del seme, come potrà vedere chi ci ha seguito finora, prendendo in mano la sua Bibbia e leggendo il c. 15 della Prima Lettera ai Corinzi, accompagnato dalle note.


28.03.2024



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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