Paradiso e inferno

Nonostante le richieste rivolte dai fedeli ai sacerdoti (che ne parlano poco), si deve riconoscere che è difficile spiegare i cosiddetti «Novissimi», cioè il destino ultimo della realtà creata, umana e cosmica, perché il nostro pensiero si sviluppa sempre secondo categorie legate allo spazio e al tempo. Ora, il paradiso e l’inferno come meta ultima dell’umanità giusta e peccatrice sono al di là del tempo, dello spazio, dell’orizzonte in cui noi siamo ora immersi e riguardano l’eterno e l’infinito, dimensioni ignote che possiamo solo intuire e raffigurare con immagini. È proprio il caso della descrizione biblica di quelle due realtà antitetiche.

La parola «paradiso» deriva da un vocabolo di origine persiana che indica un parco regale lussureggiante. E se lo collochiamo in cielo è perché la sfera celeste è sopra di noi, purissima e invalicabile, e quindi ci sembra adatta a rappresentare il divino e l’infinito. All’opposto l’«inferno» è una parola che indica qualcosa di “inferiore”, di sotterraneo, collocato appunto all’antipodo del cielo.

La Bibbia presenta il destino a cui è chiamato il giusto proprio come il «paradiso» per eccellenza. «Oggi sarai con me in paradiso», dice Gesù crocifisso al malfattore pentito (Luca 23,43). Oppure ricorre al simbolo di una città perfetta, la Gerusalemme celeste in cui non ci sono più lutto, lamento, affanno, morte e male (Apocalisse 21, 1-4), o anche all’immagine di un albero della vita a cui attingere cibo immortale (22,2). O ancora si parla del «seno di Abramo», come nella parabola del povero Lazzaro e del ricco egoista (Luca 16, 19-31).

Sotto il manto colorato dei simboli l’idea è chiara: il giusto è chiamato a varcare la morte e a entrare nell’orizzonte divino, nella comunione eterna con Dio («gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra», si legge nel Salmo 16,11). Com’è evidente, siamo ben lontani dall’immortalità, pura e semplice, qualità propria dell’anima insegnata dal filosofo greco Platone. La «vita eterna» biblica ha l’intimità piena e totale con Dio di tutta la persona; non è un attributo della creatura, ma una grazia, un dono divino (Sapienza cc. 1-5).

Antitetico è il profilo dell’inferno. La Bibbia ricorre a immagini necessariamente negative perché devono indicare il distacco assoluto dalla luce, dalla vita, dalla gioia. Ecco, allora, il ricorso al «fuoco eterno» (Matteo 3,12; 18,8; 25,41) o alla Geènna, una valle di Gerusalemme ove si incenerivano i rifiuti urbani e ove si celebravano riti infami (Matteo 5, 22.30). Ecco anche l’immagine del pianto e dello «stridor di denti», un’espressione che suggerisce non solo il gelo ma il terrore (Matteo 13,50), oppure il simbolo macabro di un verme che rode senza fine le carni (Marco 9,48), o ancora l’incombere delle tenebre (Matteo 8,12). Attraverso queste e altre immagini, prese poi alla lettera dall’arte e dalla tradizione popolare, si vuole dipingere il destino amaro di chi è volontariamente separato dal Dio della vita e della gioia.

È questo l’inferno: l’assenza della speranza, dell’amore, dell’intimità divina. Come dichiarava lo scrittore francese Georges Bernanos (1888-1948), «l’inferno è non amare più», e per questo lo immaginava non “infuocato” ma gelido. La Bibbia afferma queste nette verità sul destino ultimo dell’umanità ma, trattandosi di una realtà trascendente, non ne vuole né può descrivere i particolari.

Come osserva anche il Catechismo della Chiesa cattolica, le immagini spaziali, in verità, vogliono descrivere piuttosto uno «stato» in cui la persona umana viene a trovarsi una volta varcata la soglia dell’eternità e dell’infinito, lasciando alle spalle tempo e spazio. Al purgatorio riserveremo una trattazione specifica nella prossima puntata della nostra rubrica.


04.04.2024



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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