È uno dei sostantivi più usati nell’Antico Testamento. Non indica solo il tempo illuminato dal sole, ma è comunque segno di vita, di opere giuste, e diventa simbolo della giustizia divina
  
 All’apertura del nuovo anno, col fluire del tempo scandito dalle varie date rappresentate dai giorni, abbiamo pensato di puntare, per la nostra selezione delle parole bibliche fondamentali, sulla parola jôm, «giorno», il quinto sostantivo più usato nell’Antico Testamento (2.304 volte), dopo Jahweh, ben (figlio), esaminato nella nostra scorsa puntata, ’elohim (Dio), «re» e «terra», che considereremo in futuro. Naturalmente risaliamo all’inizio stesso della creazione: «Dio chiamò la luce jôm, mentre chiamò le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno » (Genesi 1,5).
 Per la Bibbia, quindi, il giorno è connesso alla notte e non è solo il tempo illuminato dal sole. Tant’è vero che per la celebrazione giudaica del sabato e del suo riposo si danno ancor oggi indicazioni cronologiche precise per ogni località: il giorno completo, infatti, parte dalla sera precedente del venerdì, con l’apparire delle prime stelle, fino al tramonto del giorno dopo. Il profeta Geremia esorta in un’intera pagina (17,19-27) a osservare questo giorno speciale: «Santificate il giorno (jôm) di sabato, come io ho comandato ai vostri padri» (17,22).
 Vari testi contengono il riferimento concreto alla durata del giorno secondo il computo cronologico, sempre però con l’indicazione del legame con la notte, come accade, ad esempio, per il diluvio: «La pioggia cadde sulla terra per quaranta giorni (jôm) e quaranta notti» (Genesi 7,12). Ma particolarmente importante è il valore simbolico del giorno, illuminato dal sole, e quindi segno di vita, di limpidità, di opere giuste, a differenza della notte tenebrosa che Giobbe rafgura in un quadretto vivacissimo: «Quando non c’è luce si alza l’omicida per uccidere il misero e il povero; nella notte s’aggira il ladro. L’occhio dell’adultero attende il buio e pensa: “Nessun occhio mi osserva!”, ponendosi un cappuccio sul volto. Nelle tenebre i ladri forzano le case, mentre di giorno se ne stanno nascosti » (24,14-16).
 È in questa prospettiva che si congura nelle pagine dei profeti un giorno simbolico destinato a un grande impatto nella stessa concezione della storia umana. Si tratta della formula jôm-Jahweh, il «giorno del Signore», alcune volte semplicemente definito come «quel giorno» per eccellenza. A coniarla è nell’VIII sec. a.C. il profeta Amos il quale, tra l’altro, ricorre a una folgorante rappresentazione. Su una pista della steppa c’è un uomo che fugge inseguito da un leone; riesce a svoltare su un sentiero nascosto, ma ecco pararglisi innanzi un orso minaccioso. C’è, però, una via di salvezza perché poco più in là si leva un casolare. Quasi senza respiro, quell’uomo lo raggiunge, ne varca la soglia, blocca la porta e, ansimante, si appoggia con una mano alla parete, ma una vipera con un guizzo lo morsica proprio alla mano. In ebraico la scenetta quasi filmica è affidata solo a una quindicina di parole: «Ecco, un uomo fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso. Entra in casa, appoggia la mano al muro e un serpente lo morde» (5,19). L’applicazione è esplicita: «Non sarà forse tenebra, senza luce il giorno del Signore (jôm-Jahweh)?» (5,20). Questo jôm speciale è il tempo tanto atteso dalle vittime e dai giusti. È l’irruzione inesorabile del Dio giudice che scongge i malvagi e salva i fedeli, i quali potranno nalmente esclamare: «C’è un premio per il giusto, c’è un Dio che fa giustizia sulla terra!» (Salmo 58,12).
 																			
										31.12.2020
										
																		
						
																		
									Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana