La conoscenza del bene e del male

Oltre all’albero della vita, l’altra pianta simbolica del giardino di Eden rappresenta la morale nella sua pienezza. Il peccato dell’uomo consiste nel farsene lui stesso arbitro

Ritorniamo ancora una volta, nel nostro viaggio tra le meraviglie del Creato, in quel giardino paradisiaco ove abbiamo già sostato, come sanno i lettori che ci seguono tappa per tappa. Ora vogliamo contemplare, dopo l’«albero della vita», un’altra pianta altrettanto ignota alla botanica. È l’«albero della conoscenza del bene e del male», un vegetale evidentemente simbolico e non naturalistico.

Certo, la tradizione popolare, espressa visivamente dalla storia dell’arte, è ancor oggi convinta che si tratti di un melo. In realtà, l’equivoco nasce da un antico gioco di assonanze presente nell’interpretazione latina di questo passo biblico: in latino, infatti, malus è sia il «melo», sia la persona «cattiva». Si può, dunque, allusivamente intrecciare malus-melo con malum-male. La spiegazione del significato di quella pianta non botanica ma sapienziale è allora da cercare altrove, attraverso un’analisi dei termini stessi che la definiscono. Partiamo proprio da «albero».

Ora, l’albero nella Bibbia può rimandare simbolicamente alla sapienza divina e umana: nel capitolo 24 del Siracide, un autore biblico del II sec. a.C., la Sapienza divina personificata si paragona a un parco lussureggiante con una quindicina di specie vegetali (24,13-17), mentre il Salmo 1 presenta il giusto come albero radicato nei pressi di un ruscello, le cui foglie mai avvizziscono e i cui frutti sono gustosi e costanti (1,3; lo stesso concetto è ripetuto in Geremia 17, 8). È quindi la rappresentazione simbolica di un sistema di vita.

C’è poi la «conoscenza»: nella Bibbia essa non è solo intellettuale ma è anche volitiva, affettiva ed effettiva, è un atto globale della coscienza, è una scelta fondamentale che coinvolge la vita. «Bene e male» sono ciò che tecnicamente si definisce un “polarismo”, vale a dire i due poli della realtà considerata sotto il profilo morale. Siamo allora in grado di identificare il significato di questa pianta: è l’albero della morale nella sua pienezza, manifestata all’uomo, albero che si ramifica nel cielo dell’armonia del giardino di Eden.

Tutti sappiamo che, poco dopo, l’uomo strapperà il frutto di quell’albero. A sollecitarlo sarà la donna, spinta a sua volta dal serpente. Il gesto ha un netto significato, decisivo per comprendere il «peccato originale», anzi, ogni peccato o, se si preferisce, la radice velenosa di ogni delitto, secondo le Scritture. L’uomo, violando il comandamento divino, vuole decidere autonomamente quale sia il bene e il male e si rifiuta di riceverli definiti e codificati da Dio. In altri termini, l’uomo sceglie di essere lui stesso l’arbitro della morale, respingendone ogni definizione oggettiva e divina. Boccia così il progetto di Dio. Questa è la radice ultima del peccato nella sua struttura fondamentale di orgoglio, di sfida, di «essere come Dio conoscitori del bene e del male» (Genesi 3,5). Suo sbocco è la morte, intesa nel suo significato globale, fisico e spirituale: è la separazione dal Dio della vita fisico-spirituale. Si scopre, per tale via, che l’uomo biblico – diversamente da quello delle civiltà mesopotamiche circostanti nelle cui vene scorre il sangue di un dio ribelle e che perciò non può che essere votato al male – è posto in solitudine davanti a quell’albero, è per eccellenza libero di scegliere tra bene e male. Lo spiegherà molto bene un sapiente biblico sette secoli dopo, il già citato Siracide: «Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti; l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (15,14-17).


05.03.2020



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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