Le due leggi antitetiche

La parola “virtù” è morta o, almeno, muore. “Virtù” la si dice a fatica e io la sento dire solo raramente e, nell’intenzione del bel mondo, sempre in tono ironico. Così, sconsolatamente, nel 1934, scriveva il poeta e saggista francese Paul Valéry. E non è che le cose da allora siano migliorate. Anzi, per molti le persone virtuose sono semplicemente noiose e ipocrite. Noi, invece, andremo contro corrente e riproporremo questa dimensione fondamentale della morale.

Prima di far scorrere le sette virtù tradizionali, le quattro cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) e le tre teologali (fede, speranza, carità), come abbiamo fatto nella precedente puntata della nostra rubrica, cercheremo di definire nella sua essenza questa qualità umana personale e sociale. Certo, non possiamo affrontare il tema a livello filosofico, un discorso complesso che è iniziato già nell’antica Grecia col filosofo Aristotele in un’opera che fu per secoli decisiva, l’Etica Nicomachea, dal nome del figlio del pensatore, Nicomaco, a cui era dedicata.

Dalla riflessione di questo personaggio, che Dante chiamava «il maestro di color che sanno» (Inferno IV, 131), possiamo però estrarre alcuni elementi importanti. Innanzitutto il concetto secondo il quale la virtù è saggezza della mente, ma anche scelta operativa nella vita; ossia è pensare correttamente e agire rettamente, è guida dell’intelligenza e dell’azione. Non sono certo virtuosi coloro che «dicono ma non fanno», come già affermava Gesù (Matteo 23,3). Indispensabile è, quindi, la coerenza.

Un’altra componente rilevante è l’esercizio, cioè un addestramento costante perché la virtù non si acquista con un solo atto buono e giusto. Essa è acquisita nella stessa maniera con cui si formano l’atleta o l’artista da circo o la danzatrice classica. Essi volteggiano nell’aria, sfidando le leggi stesse della gravità, ma lo fanno con lievità, armonia e apparentemente senza fatica. In realtà, alle spalle c’è una dura e severa «ascesi» (questa parola nell’originale greco áskesis significa «esercizio»), un allenamento quotidiano faticoso, com’è appunto l’essere fedeli e coerenti nell’adesione alla giustizia e alla verità.

Questo dev’essere compiuto non per interesse o per puro vantaggio, ma secondo generosità e amore, per cui – come sosteneva il filosofo americano Ralph W. Emerson (1803-1882) – «l’unico premio alla virtù deve essere la stessa virtù». Se volessimo aggiungere un’altra componente, dovremmo sottolineare un intreccio ulteriore: la virtù è un dono, un seme deposto in tutti, una grazia, un impulso naturale spontaneo che, però, deve essere coltivato e fatto fiorire dalla libertà personale, dalle decisioni e scelte che operiamo nel nostro pensare e agire.

Dentro di noi, però, si muovono due energie contrapposte, come affermava in forma suggestiva san Paolo. Egli nel c. 7 (vv. 14-25) della Lettera ai Romani – che invitiamo a leggere con attenzione prendendo in mano la Bibbia personale –, confessava di sentirsi strattonato tra due leggi antitetiche che vibravano nel suo intimo: il fascino del bene e l’attrattiva del male che pulsa nella nostra carne e nella stessa anima. Una lacerazione tra vizio e virtù dalla quale egli chiede di essere sanato attraverso la grazia di Gesù Cristo.


03.08.2023



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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