Misericordia per Caino

In questa nostra rubrica stiamo unendo famiglia e misericordia, nella luce del Sinodo celebrato l’ottobre scorso e del Giubileo che si sta svolgendo in questi mesi. Sceglieremo ora un dramma familiare che è l’archetipo simbolico di tante tragedie che hanno striato di sangue la storia. Intendiamo riferirci al celebre delitto che spezza la prima unione familiare, quella di Adamo ed Eva, con l’assassinio di Abele da parte del fratello Caino. Non entriamo nel merito di questa vicenda che vuole anche illustrare il contrasto tra i sedentari (Caino) e i nomadi (Abele), un’esperienza che turba la nostra stessa società contemporanea.
Fissiamo la nostra attenzione sul finale del racconto. Dio sta sempre dalla parte delle vittime e quindi di Abele, e il suo è un giudizio severo ma giusto: «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Sii, allora, maledetto, lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano» (Genesi 4,10-11). Anche noi dobbiamo stare dalla parte di Abele e sostenere le vittime dell’ingiustizia e della violenza e questo è un atto primario di verità e di misericordia. Tuttavia c’è un altro atto da parte di Dio che conferma la grandezza del suo perdono.
Ascoltiamo le parole del Signore dopo che Caino ha riconosciuto il suo peccato («Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono!»): «Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte! Il Signore impose a Caino un segno perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse» (4,15). Su questo segno si è molto discusso: alcuni pensano a un’insegna propria dei Qeniti, la tribù che rimandava nel suo nome a Qajin/ Caino; altri a un particolare tatuaggio o a un’acconciatura, tipica di alcune appartenenze etniche o tribali, o a un segno di protezione da vendette all’interno di qualche comunità antica. Certo è che nel racconto biblico questo elemento ha ormai un valore religioso.
È l’inizio della cura misericordiosa di Dio anche nei confronti dei colpevoli. Dio condanna l’assassino, ma non lo abbandona al suo destino, anzi, lo accoglie sotto la sua suprema giurisdizione a cui tutte le vite appartengono. Non è, quindi, lecita la pena di morte anche perché, come affermava il libro della Sapienza, il Signore, che pure potrebbe prevalere con la forza, ha compassione di tutti e non considera i peccati dell’uomo se non in vista del pentimento (si leggano questi versetti in quel libro biblico: 11,21-24 e 12,1-2.18-19). Il comportamento divino nei confronti di Caino diventa, allora, un modello anche per le famiglie che sono attraversate da prove generate dalla violenza.
La giustizia e la condanna non devono mai venir meno, ma la paziente e coraggiosa opera di redenzione deve essere sempre tentata e vissuta con generosità, sulla scia della dichiarazione del Signore: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? (...) Io non godo della morte di chi muore. Convertitevi e vivrete!» (Ezechiele 18,23.32).


21.01.2016



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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