NABÎ’: profeta

La presenza di una figura carismatica, attraversata da una voce trascendente, c’è in tutte le religioni, ma nella Bibbia ha il tratto caratteristico del messaggero del Dio unico e personale - 

Quest’anno è coperto dalla domenica, ma il 29 agosto reca solitamente la memoria del martirio di Giovanni Battista. Gesù affermò che «tutti i profeti e la legge hanno profetato fino a Giovanni e, se volete comprendere, è lui quell’Elia che deve venire» (Matteo 11,13-14). Abbiamo così voluto proporre nel vocabolario biblico che stiamo da tempo allestendo ogni settimana la parola nabî’, «profeta»: il primo nella Bibbia fu Samuele, ma già Mosè era stato definito come il profeta più alto in assoluto, lui che «conosceva il Signore faccia a faccia» (Deuteronomio 34,10).

La presenza di una figura carismatica, attraversata da una voce trascendente, appare in quasi tutte le religioni: la stessa Bibbia presenta un mago pagano, Balaam, che viene riconosciuto come testimone di un messaggio divino autentico ( Numeri 22-24). Tuttavia la profezia biblica ha caratteristiche così originali da renderla un unicum, nella sua sostanza più intima, tanto da farne – come scriveva il filosofo tedesco Karl Jaspers (1883-1969) – «un evento cardine nella storia del mondo». Il profeta biblico è per eccellenza un messaggero del Dio trascendente e personale, tant’è vero che la formula introduttoria o conclusiva costante degli oracoli (detta appunto «del messaggero») è: «Così dice il Signore...». I termini con cui viene denominato il profeta sono molteplici.

Egli è detto per 315 volte nabî’, probabilmente «chiamato», mosso quindi da un’irruzione divina nella sua vita, come ricorda uno di essi, Amos (VIII sec. a.C): «Non ero profeta né figlio di profeti; ero un pastore e raccoglitore di sicomori. Il Signore mi prese da dietro il bestiame e mi disse: Va’ e profetizza al mio popolo Israele!» (7,14-15). Altra definizione è quella di «uomo di Dio», ripetuta per 76 volte, soprattutto per Elia ed Eliseo, i primi profeti in senso stretto, dei quali non sono pervenuti gli scritti ma solo racconti biografici costellati di «fioretti», raccolti nei Libri dei Re.

C’è, poi, il termine hôzeh, «visionario» (16 volte), a cui si può accostare ro’eh, «veggente» (11 volte): si marca qui più la dotazione di una visione trascendente che svela al suo interno un messaggio divino. Ma l’antica versione greca della Bibbia detta dei Settanta e il Nuovo Testamento hanno adottato il vocabolo greco profètes, che contiene il verbo femí, «parlare», e la preposizione pró che rimanda a tre significati utili per definire la missione profetica: «in luogo di, davanti a, prima di». Decisivo è il primo significato: il profeta parla «in nome di Dio», ne è il portavoce presso gli uomini. Proprio per questa funzione, il profeta è uomo del presente e non tanto l’indovino di un futuro ignoto, è coinvolto nella storia, nella società, nei drammi del suo tempo.

Basta sfogliare le pagine profetiche per scoprire informazioni e coinvolgimenti in guerre e questioni internazionali, in ingiustizie sociali e in attese di liberazione, in tensioni politiche e in vicende nazionali. La presenza del profeta ha allora il compito di mostrare il senso profondo della storia, quello che Dio vi imprime nel suo agire nascosto e che vorrebbe fosse seguito dalle libere scelte umane. La sua è un’opera di decifrazione del significato della vita sotto l’involucro dell’agire e dell’agitarsi umano: senza la sua voce, diceva il grande filosofo Pascal, «non sapremmo chi ci ha messo in questo angolo dell’universo, che cosa siamo venuti a fare e che cosa diventeremo morendo» (Pensieri n. 693). È per questo che il Canone ebraico ha chiamato «Profeti anteriori» anche i libri storici della Bibbia, proprio perché di scena non è mai la semplice storiogra‘a, ma la storia della salvezza.


27.08.2021



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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