Nazionalismo o interculturalità?

Per chi, come me, vive accanto alla Basilica di San Pietro e al suo stupendo colonnato che abbraccia i pellegrini di quest’anno giubilare, impressiona sempre sentire la polifonia delle lingue o scoprire la diversità dei volti che segnalano la molteplicità delle etnie e, quindi, l’inculturazione del cristianesimo in tante civiltà differenti. Nello spirito di questa esperienza esaltata dal Giubileo vorremmo sottolineare l’importanza del dialogo interculturale e, quindi, interreligioso che è il Dna stesso della nostra fede, se è vero come ripeteva san Paolo che «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo» (Galati 3,28; vedi anche Colossesi 3,11).

Purtroppo, però, sappiamo che da sempre fiorisce un’erba maligna, quella che inquina il campo delle relazioni tra le culture e si esprime nello scontro anziché optare per l’incontro, si esalta nel rigetto dell’altro e rifugge dal confronto, celebra il nazionalismo e il sovranismo detestando l’universalismo e il dialogo multiculturale. Questo identitarismo si esaspera in ambiti politici e religiosi di stampo integralistico, aggrappati alla convinzione del primato assoluto della propria civiltà o religione, deprezzando le altre culture classificate come inferiori o persino primitive.

È quello Scontro delle civiltà che era il titolo e il tema del famoso saggio del 1996 del politologo americano Samuel Huntington che elencava otto culture (occidentale, confuciana, giapponese, islamica, hindu, slava, latino- americana e africana) enfatizzandone le dfferenze. Scattava, così, in Occidente l’autodifesa dei propri valori assediati da altri modelli e sfide. La religione biblica parte, invece, da una comune “adamicità”, cioè umanità di tutte le creature che sboccia poi in tante culture con le loro dotazioni, per cui – ad esempio – l’elezione dell’Israele biblico non è un privilegio ma una missione di effusione di valori ad altri popoli.

L’“interculturalità” è, allora, non una semplice e statica “multiculturalità” fatta di mera coesistenza l’uno accanto all’altro, come accade ai quartieri etnici di certe metropoli (New York con Chinatown, Little Italy, Bronx, quartiere giudaico e così via), bensì lo sforzo sforzo di un interscambio culturale e spirituale. È ciò che è avvenuto nella stessa Bibbia nella quale la Parola di Dio si è incarnata, sì, in una civiltà specifica, l’ebraica e la greco-romana, ma nella storia ha assunto elementi di varie culture, dalla nomadica alla fenicio-cananea, dalla mesopotamica all’egizia, dall’hittita alla persiana, dall’ellenismo al giudaismo palestinese e della Diaspora.

Questa esperienza di osmosi feconda tra la Parola di Dio e le varie culture ha avuto un’applicazione concreta proprio nella “inculturazione” del messaggio cristiano in civiltà lontane: si pensi solo all’opera del gesuita Matteo Ricci (1552- 1610) nel mondo cinese. Inoltre, già i padri della Chiesa erano convinti che anche nei pagani (e noi diremmo oggi in tanti non credenti) sono deposti “semi” della Parola di verità, al punto che nel II sec. san Giustino, difensore della fede cristiana, scriveva: «Della Parola divina fu partecipe il genere umano e coloro che vissero secondo la Parola sono cristiani, anche se giudicati atei, come i greci Socrate ed Eraclito e altri come loro».


20.02.2025



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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