Il vocabolo appare 864 volte nell’Antico Testamento e incarna in sé la realtà, il significato profondo, la missione di una persona. Per questo quello di Dio non può essere «pronunciato invano»
 Fino a non molto tempo fa, il nome che si assegnava ai neonati rifletteva la genealogia della famiglia; tanti lettori possono confermare questo dato proprio attraverso il loro nome di battesimo, come è accaduto anche a me che riassumo i nomi dei miei due nonni, Giovanni e Francesco. Non per nulla il nome che in Italia registrava fino a non tanto tempo fa un primato pare fosse Giuseppe, con tutte le sue varianti maschili e femminili, perché era un segno delle tradizioni familiari cristiane. La stessa moltiplicazione attuale di nomi talora rari o stravaganti o di moda è il segnale di un mutamento culturale e sociale.
 Gli antichi Romani avevano creato una formula assonante in latino, nomen omen, ossia il nome è un augurio o un presagio. Questa convinzione è ancora più marcata nel mondo biblico ove shem, il «nome», vocabolo che è presente 864 volte nell’Antico Testamento, fioriva da valori simbolici o da vicende vissute dai personaggi che venivano riassunte proprio nel loro nome, spesso con un’interpretazione molto libera. Facciamo due esempi, uno anticotestamentario, l’altro evangelico.
 Giacobbe è interpretato come «colui che tiene il calcagno», sulla base della modalità della sua nascita. Infatti, dal grembo di Rebecca, moglie di Isacco, «uscì il primo figlio, rossiccio e tutto come un mantello di pelo e fu chiamato Esaù» o Edom (che signica «rosso»). «Subito dopo, uscì il fratello e teneva in mano il calcagno di Esaù e fu chiamato Giacobbe » (Genesi 25,25-26). Ora, in ebraico «calcagno» è ‘aqeb, donde la forma Ja-‘aqob, «Giacobbe», con il signicato sopra indicato. Ma, dopo la lotta notturna con Dio, a lui verrà imposto un nome nuovo, Israele, interpretato come «egli lotta con Dio» (Genesi 32,28). Mutare il nome è un atto importante perché denota un cambiamento radicale della persona che acquista una nuova vocazione o missione. È il caso anche del secondo esempio neotestamentario. Gesù attribuisce a Simone il nome aramaico Kefa (Cefa), ossia «pietra», facendolo diventare Pietro, così da rappresentare la sua funzione ecclesiale: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Matteo 16,18). A questo punto dobbiamo segnalare un dato particolarmente rilevante.
 Per 87 volte nell’Antico Testamento si introduce il shem di Jahweh, cioè del Signore. Avremo occasione in futuro di spiegare questo nome divino e altri che vengono usati nella Bibbia per designare Dio. Se, come si diceva, il nome incarna in sé la realtà, il signicato profondo, la missione di una persona, è evidente che il nome divino non può essere «pronunciato invano», come si afferma nel secondo comandamento del Decalogo (Esodo 20,7), né può essere decifrato con facilità. Per questo dovremo in futuro cercare di individuare il significato dei nomi assegnati dalla Bibbia a Dio.
 Concludiamo con un corollario. Tante volte nella preghiera, così come si farà poi nella tradizione giudaica, quando si deve invocare il Signore si fa riferimento solo al suo «nome»: «In te si allietino quanti amano il tuo nome… Canterò il nome di Dio, l’Altissimo… Quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra… Volgiti a me e abbi pietà, con il giudizio che riservi a chi ama il tuo nome» (Salmi 5,12; 7,18; 8,2; 119,132). La sintesi di questo uso è nella prima invocazione del Padre nostro: «Sia santificato il tuo nome», cioè che tutti riconoscano la santità, la grandezza e la gloria della persona di Dio.
 																			
										11.02.2021
										
																		
						
																		
									Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana