Un padre eminente e la sua ragazzina
										
									
									 Nel clima pasquale presentiamo la storia evangelica di un padre e della sua ragazza. Sarà un modo particolare per arricchire la sequenza di giovani che stiamo facendo sfilare nella nostra rubrica. Tra l’altro, il dramma che colpirà questo padre si ripeterà anche per due madri – l’una dell’Antico Testamento, la seconda dei Vangeli – in una vicenda parallela che evocheremo in futuro. Partiamo dal fondale dal quale avanza questo padre: è Cafarnao, città del Lago di Tiberiade spesso meta dei viaggi di Gesù (Marco 5,21-43). Quest’uomo è un’autorità cittadina, «uno dei capi della sinagoga» locale.
 Il suo nome greco è Iáiros, Giairo, ripresa dell’ebraico Iair, nome di alcuni personaggi dell’Antico Testamento. Tra costoro segnaliamo un “giudice”, ossia uno dei governatori che ressero gruppi di tribù o tribù singole prima dell’avvento in Israele della monarchia. Costui era nato nella regione transgiordanica di Galaad e rimase in carica ventidue anni. Di lui si dà una notizia piuttosto curiosa: «Ebbe trenta figli che cavalcavano trenta asini e avevano trenta città che ancor oggi si chiamano i Villaggi di Iair e sono situati nella regione di Galaad » (Giudici 10,4). Sotteso a questa notizia c’è, nell’originale ebraico, un suggestivo gioco di parole: infatti in ebraico “asino” si dice ‘air, “città” ‘ir e, ovviamente, di mezzo c’è il nome Iair.
 Ma ritorniamo al nostro Giairo che – come dicevamo – aveva una funzione di responsabilità nel consiglio di gestione di quella sinagoga ove risuoneranno le parole di Cristo sul «pane di vita» (capitolo 6 del Vangelo di Giovanni). Come ricordano i pellegrini che hanno visitato Cafarnao, attualmente si ergono le imponenti rovine di una sinagoga che è però posteriore di qualche secolo a quella, più modesta, frequentata da Gesù. Sta di fatto che in quella cittadina c’è fermento al passaggio di Cristo, come attesta l’episodio della donna affetta da emorragia che viene sanata. I discepoli, infatti, fanno notare a Gesù: «Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?» (Marco 5,31).
 L’evento drammatico della ragazzina in fin di vita, figlia di una figura eminente della comunità, non poteva non suscitare scalpore. Dell’episodio sottolineiamo solo un paio di elementi introdotti nella parte finale del racconto, quando ormai la ragazzina dodicenne è spirata. Il primo è la citazione dell’aramaico parlato da Gesù, segno di una preziosa memoria storica delle parole di Cristo conservata nei Vangeli: Talita’ kum, «fanciulla, io ti dico: alzati!». L’altro elemento è la frase che Gesù aveva pronunziato in precedenza, sollecitando l’ironia degli astanti: «La bambina non è morta, ma dorme». Con questa espressione si introduce l’interpretazione della morte del cristiano alla luce della Pasqua di Cristo. Attraverso quest’ultima, infatti, la morte è un sonno che attende il risveglio della risurrezione (espressa nei Vangeli col verbo greco eghéirein che significa letteralmente “risvegliare”).
 Concludiamo con un duplice particolare curioso: Gesù «raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare» (5,43). Ma come si poteva tener celato un evento così clamoroso, tanto che i pochi testimoni «erano stati presi da grande stupore» (5,42)? Gesù, soprattutto nel Vangelo di Marco, vuole però che non lo si scambi per un mago o un taumaturgo spettacolare: il suo “segreto messianico” desidera svelarlo solo progressivamente e attende che sia accolto per fede. Infine, commovente è quel gesto quasi “paterno” di Gesù che si preoccupa di far mangiare la ragazza che usciva dalla galleria oscura di una malattia mortale. Un segno di amore semplice e quotidiano nella cornice di un evento così clamoroso.
 																			
										27.04.2017
										
																		
						
																		
									Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana