Il libro da ingoiare simbolo di unità

Vissuto in esilio a Babilonia, il profeta Ezechiele ricevette la sua vocazione proprio in quella terra lontana, mentre era accampato lungo uno dei tanti canali che, attraverso le acque del Tigri e dell’Eufrate e dei loro affluenti, rendevano quel territorio fertile e popoloso. Egli ci ha lasciato anche il nome di quel fiume, Chebar. La scorsa settimana abbiamo evocato la prima delle due relazioni che il profeta ci ha lasciato di quella chiamata divina che trasforma la sua vita rassegnata di esule (capitolo 1).

Subito dopo, si ha un nuovo racconto (Ezechiele 2,3-3,11), molto più pacato, anche se aspro nei contenuti. Si tratta di un brano scandito dalla locuzione «figlio dell’uomo», con cui viene interpellato il profeta. Tre sono gli atti di questa chiamata. Si inizia con un annuncio della futura missione, un impegno pesante perché rivolto a una «genia di ribelli». Ebbene, «ascoltino o non ascoltino», non potranno ignorare questa voce potente e dura.

Ma «tu, figlio dell’uomo, non li temere; non aver paura delle loro parole. Essi saranno per te come cardi e spine e tra loro ti troverai in mezzo a scorpioni. Non ti impressionino le loro facce: sono una genia di ribelli...» (si legga 2,3-7). Giungiamo, così, al secondo atto, quello centrale, che contiene la consacrazione del profeta attraverso un simbolo molto suggestivo (Ezechiele predilige il ricorso alle azioni simboliche in tutta la sua predicazione). Cibarsi del rotolo che reca le parole divine è un’immagine per esaltare l’unione vitale tra il chiamato e chi lo invia in missione.

Ascoltiamo il profeta: «“Figlio dell’uomo, ascolta ciò che ti dico e non essere ribelle come questa genia di ribelli: apri la bocca e mangia ciò che io ti do”. Io guardai, ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo... Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele» (2,8-9; 3,1-3).

Il libro ingoiato è un’immagine forte per indicare che nella vocazione profetica la parola divina deve diventare carne della stessa carne di Ezechiele. Non è solo ingestione ma digestione. Dolce e amaro sono i due segni complementari della salvezza e del giudizio che la parola e l’opera divina comportano. Nel libro dell’Apocalisse abbiamo una libera ripresa di questo simbolo: «Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (10,10).

Il terzo atto di questa storia di vocazione (3,4-9) ribadisce la durezza di una missione che sarà lotta, attacco, tensione, ma anche il dono della fortezza per l’inviato del Signore: «Ecco io ti farò una faccia indurita quanto la loro faccia e una fronte dura come la loro. Ho reso la tua fronte come diamante, più dura della selce» (3,8-9). La parola divina è destinata ad assaltare e inquietare, persino a sconvolgere. Quella che si prospetta davanti a molti chiamati come Ezechiele non è una passeggiata. Lo scrittore inglese Graham Greene affermava: «Se non vi hanno mai contestato, è segno che non avete sempre detto la verità».


27.09.2018



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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