La madre e il suo bambino
										
									
									 Alle soglie del Natale, festa familiare per eccellenza, abbiamo pensato di indirizzare ai nostri lettori e alle loro famiglie un augurio di intimità, di serenità, di fiducia. Lo affidiamo a una parola biblica, ma anche religiosa e umana, e a un dolce canto salmico.
 La parola è quella della speranza, una virtù molto realistica, come affermava il poeta francese Charles Péguy nel poemetto Il portico del mistero della seconda virtù (1911): «È sperare la cosa difficile / a voce bassa e vergognosamente. / E la cosa facile è disperare / ed è la grande tentazione». Certo, è arduo tener salda la casa familiare, diceva Montaigne nei suoi Saggi, perché «governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno». 
 Eppure, l’amore fiducioso e generoso può compiere miracoli. Persino un pessimista come il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, nella sua amara Casa di bambola (1879), non esitava a riconoscere che «la vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda solo sul principio dell’io ti do e tu mi dai». Cristo ha introdotto, invece, quest’altro principio: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Giovanni 15,13), varcando così la stessa legge, pur alta, dell’«amare il prossimo come sé stessi».
 Proponiamo, allora, un delizioso quadretto che il Salmista ha abbozzato in sole 30 parole ebraiche. Si tratta del Salmo 131, che introduce nella famiglia e nella fede una virtù oggi brutalmente ignorata, la tenerezza. Come accade altrove nella Bibbia (ad es. Esodo 4,22; Isaia 49,15; Salmo 27,10), il legame tra il fedele e il suo Signore è modellato sul rapporto genitoriale. Qui è la dolce e tenera intimità tra una madre e il suo bambino. Non però un neonato, ma – come esplicita il vocabolo ebraico gamûl – un bimbo “svezzato” che s’attacca consapevolmente alla madre che lo porta sul dorso, in una cosciente relazione di intimità.
 Canta, dunque, il Salmista: «Io ho l’anima mia distesa e tranquilla; come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia». In dissolvenza potrebbe scorrere la scenetta di un padre profeta, Osea, che metteva in bocca a Dio padre queste parole: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato… Gli insegnavo a camminare tenendolo per mano… Lo attiravo con legami di tenerezza, con vincoli d’amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (11,1-4). 
 Con quest’ultimo sguardo che intreccia fede e amore, grazia e impegno, famiglia umana e Trinità divina, contempliamo la famiglia che la Parola di Dio affida all’uomo, alla donna e ai figli perché compongano «una comunione di persone, segno e immagine della comunione del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La sua attività procreatrice ed educativa è il riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata a condividere la preghiera e il sacrificio di Cristo. La preghiera quotidiana e la lettura della Parola di Dio corroborano in essa la carità» (Catechismo della Chiesa cattolica n. 2.205).
 																			
										18.12.2015
										
																		
						
																		
									Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana