Sull’albero di sicomoro per incontrare Gesù

Ci sono due esperienze umane che possono coincidere: da un lato, la conversione che designa una mutazione radicale di orientamento nella vita; d’altro lato, la vocazione che ugualmente indirizza verso una nuova strada nell’esistenza personale. È, questo, il caso di Zaccheo (in ebraico è noto il nome Zakkai), un alto funzionario fiscale che gestiva gli esattori di un’importante città della valle del Giordano come Gerico. Si tratta, infatti, di una vasta oasi incastonata in un panorama arido e quasi lunare (tra l’altro, in ebraico, Gerico significa appunto “la luna”), ricca perciò di coltivazioni e di commerci. Non per nulla è stata forse la città più antica del mondo, con tracce archeologiche urbane che risalgono quasi all’800 a.C.

Zaccheo, la cui vicenda è narrata nel Vangelo di Luca (19,1-10), è definito come «il capo dei pubblicani e uomo ricco». Con il termine «pubblicano», in greco telónes, si indicano gli impiegati del fisco e della dogana: erano di solito appaltati dal Governo romano, che aveva il protettorato sulla Palestina, o da autorità locali. Nell’esercizio del loro potere questi funzionari erano spesso esosi e corrotti e, anche per il loro collaborazionismo con le forze dell’occupazione dell’Impero romano, erano detestati dal popolo e posti al livello dei peccatori pubblici e delle prostitute.

Gesù, che non ha imbarazzo a stare in questa cattiva compagnia, convinto che sono i malati e non i sani ad aver bisogno del medico – come dirà nei confronti di un altro pubblicano di alto rango che in seguito considereremo, cioè Matteo-Levi – non esita a farsi invitare a casa di Zaccheo. Costui, senza imbarazzo, aveva sfidato i commenti ironici e, piccoletto di statura com’era, si era arrampicato su un albero di sicomoro, tipico del clima subtropicale di Gerico che è infossata a 300 metri sotto il livello del mare. Da quella posizione, i suoi occhi, curiosi di vedere questa figura così popolare, s’erano incontrati con quelli di Gesù di Nazaret.

Era scoccata, così, una scintilla che aveva portato quell’uomo non solo all’incontro ma anche alla conversione: essa aveva inaugurato una vera e propria vocazione, non tanto alla sequela di Cristo, ma a essere testimone operoso di carità. È, infatti, interessante la dichiarazione finale di Zaccheo: «Io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Ora, la legge giudaica di allora prevedeva la restituzione del quadruplo nel solo caso di abigeato grave (nel furto di un montone, secondo Esodo 21,37), mentre il diritto romano lo esigeva per la fl—agranza di reato (i cosiddetti furta manifesta). Zaccheo, invece, si impone una scelta così gravosa per tutti i torti da lui causati.

È la chiamata a una vita onesta, ma è anche la scelta di entrare nella logica dell’amore radicale e totale propria del Regno di Dio. Una scelta che è suggellata dalle parole di Gesù che dichiara salvo questo «figlio di Abramo», che prima era stato un prevaricatore, perché «il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto». Certo, non tutti gli Zaccheo si lasciano scuotere da quella voce, come ricorda amaramente il nostro poeta Eugenio Montale: «Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore / se mai passi. / Ahimè, io non sono un rampicante, / ed anche stando in punta di piedi, / io non l’ho visto».


12.07.2018



Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana

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