THEÓS/CHRISTÓS: Dio/Cristo
										
									
									 Quando nel canto XXIV del Paradiso pronuncia davanti a san Pietro la sua professione di fede, Dante definisce il Dio creatore come colui «che tutto ’l ciel move, non moto, con amore e disio» (vv. 131-132). In questa frase egli unisce la filosofia aristotelica, che considerava la divinità come un «Motore immobile» («move, non moto»), con la visione cristiana del Dio persona che ama («con amore e disio»). Ecco, la Bibbia non ci offre una «teologia» in senso stretto, ossia un discorso sistematico teorico su Dio, non ne delinea l’essenza con «prove fisice o metafisice», per usare ancora le parole di Dante (vv. 133-134)
 La Sacra Scrittura («Moïsè, profeti, salmi, Evangelio», continuando con l’Alighieri) ci presenta un Dio che si rivela nel linguaggio umano, che opera nella storia, che si manifesta come una persona che giudica e salva secondo una legge morale. Il Dio biblico non è, perciò, né un ente astratto, né un essere mitico, né un fato incomprensibile e cieco, né un concetto solo metafisico, tant’è vero che nell’Antico Testamento ha anche un nome proprio, Jahweh, evocato ben 6.823 volte. Certo, è un Dio trascendente perché non si confonde con la natura; eppure è attivo in parole e opere nella vicenda umana e nello stesso creato.
 Si configura, così, il profilo del Theós, il Dio del Nuovo Testamento, ove questa parola greca risuona ben 1.317 volte e ha la sua definizione più alta nella celebre frase «Dio è amore» (1Giovanni 4,8.16). Un amore intradivino che si manifesta nella generazione del Figlio attraverso lo Spirito; un amore che si effonde all’esterno nella creazione e nella redenzione e che ha il suo apice nell’Incarnazione del Figlio: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Giovanni 3,16). La meta ultima si compirà quando l’umanità e il cosmo saranno riportati a un’armonia piena, così che «Dio sia tutto in tutti» (1Corinzi 15,28).
 Questa formula paolina ha un’ulteriore edizione nella Lettera ai Colossesi: «Cristo è tutto e in tutti» (3,11). È, allora, spontaneo allegare al termine Theós proprio la parola «cristiana» per eccellenza, anche se la sua origine è anticotestamentaria: Christós, presente 529 volte, è la traduzione greca dell’ebraico mashiah, «messia», che letteralmente significa «consacrato, unto con l’olio sacro». Alla base c’è, dunque, il verbo greco chríô, «ungere», che evocava la consacrazione dei re e dei sacerdoti e, quindi, del Messia. Si ha, quindi, un legame con l’attesa messianica di Israele, ed è in questa prospettiva che si stabilisce un ponte tra la profezia e la cristologia.
 Nel Nuovo Testamento, infatti, Gesù è visto come il Messia/Cristo sperato e atteso dall’Israele biblico e i suoi fedeli saranno chiamati «cristiani» (per la prima volta ad Antiochia, secondo Atti 11,26). Nella Prima Lettera di Pietro, christianós, titolo che è presente solo tre volte nel Nuovo Testamento, è ormai un attributo glorioso: «Se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; anzi, glorifichi Dio per questo nome» (4,16).
 A margine, ricordiamo però che la continuità col messianismo biblico non deve cancellare la difformità cristiana, perché Gesù Cristo è proclamato da Dio, sia nel suo battesimo sia nella trasfigurazione, come «il Figlio mio, l’amato» (Matteo 3,17; 17,5). In altri termini, la professione di fede neotestamentaria ha nel suo cuore la divinità del Messia, che invece per l’ebraismo rimane creatura umana, sia pure suprema.
 																			
										20.10.2022
										
																		
						
																		
									Testo a cura del cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. Integralmente riprodotto per la discussione e la riflessione. Fonte: Famiglia Cristiana